Ancora a proposito di Gaza
Anch’io, come Lorenzo Gradoni, non ho firmato l’appello per Gaza, pubblicato qualche giorno fa in questo Blog, insieme ad altri documenti. E, in una certa misura, le ragioni per cui mi sono deciso in tal senso, si sovrappongono a quelle fatte valere nel suo post.
È fin troppo evidente che l’atteggiamento della comunità internazionale, cui pure si richiamano accoratamente gli estensori dell’appello, è stato perlomeno ambiguo riguardo alle vicende cui stiamo assistendo e, come tutti sanno, riguardo alla situazione di cui tali vicende sono espressione. Ed è altrettanto evidente che il sistema stesso della giustizia penale internazionale (e cioè, quello stesso sistema che viene primariamente invocato nell’appello) presenta limiti strutturali (lucidamente individuati, proprio da un Autore italiano come Picone, negli atti di un convegno SIDI, ben prima che il sistema stesso iniziasse concretamente ad operare, e dunque a palesarli), tali da rendere, in partenza, piuttosto improbabile una sua attivazione nel caso in esame, perlomeno per il canale del Consiglio di Sicurezza. D’altra parte, al di là della nota (e comprensibile) presa di posizione dell’Organizzazione per l’Unione africana riguardo alla giurisdizione della Corte penale internazionale nei confronti di capi di Stato e di governo in carica (per la quale, v. i riferimenti indicati nel post di Gradoni), è bene non dimenticare che anche quando tale giurisdizione è stata attivata nei confronti di questi ultimi – sulla base di un “referral” del Consiglio di Sicurezza – gli effetti che ne sono scaturiti appaiono discutibili, perlomeno riguardo alle situazioni complessive sulle quali si mirava ad incidere. Si pensi al caso del (primo) mandato d’arresto nei confronti di Bashir, in cui a tale provvedimento, peraltro non ancora eseguito, fecero immediatamente seguito un peggioramento della situazione umanitaria in Sudan, sotto vari profili, ed alcune reazioni negative, non solo da parte dell’Unione africana, ma anche di altri Stati quali la Russia e l’Egitto. E si pensi ancora all’effimero mandato d’arresto nei confronti di Gheddafi, il quale, lungi dal configurarsi come l’atto iniziale di un procedimento giudiziario realmente autonomo, si è tradotto in realtà in un semplice … preludio all’azione militare, autorizzata dallo stesso Consiglio di Sicurezza, e all’eliminazione fisica dello stesso Gheddafi, senza che ciò abbia peraltro contribuito alla pace e alla stabilità di quel Paese, com’è attestato dai fatti degli ultimi giorni.
Alla luce di siffatte circostanze, anche l’eventuale attivazione della giurisdizione della Corte – nell’ipotesi in cui essa dovesse effettivamente (ed improbabilmente) aver luogo per il tramite del Procuratore della Corte penale internazionale, sollecitato dalla Palestina (v. ancora il post di Gradoni, per i riferimenti) – può sollecitare qualche interrogativo. Più esattamente: può senza dubbio ritenersi che la prospettiva (anch’essa piuttosto improbabile) di vedere alla sbarra, all’Aja, il primo ministro in carica dello Stato d’Israele sia effettivamente in grado di migliorare la situazione complessiva del conflitto, di cui gli scontri in atto costituiscono espressione? O dovremmo piuttosto attenderci che tale prospettiva sarebbe rifiutata, da parte di Israele, con un ulteriore irrigidimento della posizione di quel Paese, oltre che con la probabile adozione (da parte sua) di una risoluzione più o meno simile a quella recentemente presa dall’Organizzazione per l’Unione africana? È giusto, infine, classificare un simile dubbio come una questione di ordine esclusivamente storico-politico – inidonea, in quanto tale, ad inficiare la scansione del discorso giuridico relativo al caso in esame – o può esso (dubbio) interessare anche il giurista, quando quest’ultimo si trovi, per l’appunto nel caso in esame, di fronte a una complessa, lunghissima, aggrovigliata, tragica vicenda di … ordine storico-politico (sul punto, v. Guarino)?
Fatta questa premessa, vorrei passare a svolgere qualche osservazione su altri aspetti, anch’essi sottolineati da Lorenzo Gradoni; vale a dire, per un verso, sulla qualificabilità dell’azione di Hamas come “terroristica” e, per altro verso, sulle ambiguità del principio della necessità militare, al quale Israele si richiama per giustificare le modalità delle proprie azioni. Responsabilità non secondarie vengono infatti attribuite nel post, alla diplomazia internazionale e alla dottrina internazionalistica, “imputate” di aver contribuito a compromettere l’operare della disciplina del diritto umanitario, in nome della lotta al terrorismo, sia sul piano delle possibilità di estensione di tale disciplina a fattispecie come quella in esame, sia sul piano della tenuta delle sue categorie di fondo. Più gravi responsabilità vengono poi contestate al su-indicato principio della necessità militare, con il quale (o meglio, con la logica di fondo del quale) le violazioni commesse da Israele vengono ritenute, in ultima analisi, compatibili.
Quanto al primo profilo, mi sentirei di sottolineare che, a fronte dei metodi “terroristici” utilizzati da Hamas, le modalità della risposta israeliana appaiono suscettibili di assumere una coloritura giuridica tendenzialmente analoga, se si considera l’insufficienza dei preavvisi dati ai civili in prossimità di un attacco idoneo a colpirli; insufficienza, quest’ultima, espressamente sottolineata nell’appello; implicitamente richiamata nello Statement dell’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la sicurezza in relazione al bombardamento della scuola delle Nazioni Unite a Gaza e del mercato di Shuja’iyeh (v. la raccolta di documenti in questo Blog); e (se non sbaglio) sostanzialmente data per scontata nell’intervento di Marco Pertile. Per la precisione, si potrebbe allora osservare che, mentre i metodi di Hamas risultano premeditatamente (e apertamente) preordinati a colpire la popolazione civile (israeliana), con lo scopo di diffondere il terrore, la risposta israeliana, proprio in ragione di quanto appena detto, tende quanto meno a caratterizzarsi per la rappresentazione e per l’accettazione della possibilità che questo stesso effetto si produca.
Se ciò è vero, se è vero, in altre parole, che alla premeditazione di Hamas sembra corrispondere (quanto meno) il dolo eventuale israeliano, c’è dunque da chiedersi se, insieme alle magagne della diplomazia mondiale e della dottrina internazionalistica (senz’altro presenti), non vi sia altro da chiamare in causa, piuttosto che i caratteri strutturali del principio della necessità militare. C’è da chiedersi, insomma, se l’accettazione, da parte israeliana, del sistematico coinvolgimento della popolazione civile di Gaza nel conflitto, più che risultare compatibile con la logica di fondo del suddetto principio (che resterebbe pur sempre destinato a cedere dinanzi all’esigenza di rispettare principi inderogabili del diritto umanitario, fra i quali si fa pacificamente rientrare il divieto di grave breaches del diritto internazionale umanitario: per tutti, v. lo scritto di Condorelli e Boisson de Chazournes del 1984, p. 23) non si configuri come un comportamento radicalmente contrario alla logica di fondo del sistema del diritto umanitario, in quanto reazione tendenzialmente simmetrica (nelle sue concrete modalità e nei limiti appena indicati) rispetto agli attacchi diretti nei confronti di civili israeliani. Al di là della sproporzione quantitativa fra le perdite inflitte dai bombardamenti israeliani e quelle derivanti dalle azioni militari di Hamas, ci si può anzi domandare se siffatta simmetria – dalla quale i media, e lo stesso appello de quo, ci hanno in qualche modo distratto, col continuo e macabro riferimento alla impari contabilità dei morti – non manifesti una preoccupante tendenza, perlomeno in un caso come questo, all’adozione di condotte lesive del diritto umanitario, sulla base di un criterio di reciprocità. Questa tendenza – per quanto giustificata dagli interessati in base alle particolarità del teatro del conflitto in corso (sovrappopolazione e ridotta estensione della Striscia, promiscuità fra siti militari e insediamenti civili, presenza di tunnel sotterranei, ecc.) – sarebbe comunque ben lontana dal carattere “oggettivo” che, perlomeno in principio, caratterizza il modo di essere e di operare degli obblighi internazionali in argomento, nell’attuale fase di sviluppo dell’ordinamento internazionale.
Le osservazioni appena svolte, che sono solo parzialmente in linea con l’impostazione complessiva della Joint Declaration (in cui, sulla base del riferimento alle risultanze della “fact finding mission” delle Nazioni Unite sull’operazione “piombo fuso”, il comportamento israeliano tende ad essere configurato come contrario al divieto di punizioni collettive, disposto dall’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra), pur distinguendo la mia posizione da quella di Lorenzo Gradoni (ed anche da quella di Marco Pertile, che molto insiste, invece, sulla violazione del principio di proporzionalità: v. anche infra) non attenuano, peraltro, il mio scetticismo sul richiamo alla giustizia penale internazionale, che costituisce il cuore dell’appello. È evidente, infatti, che le difficoltà sopra indicate restano tutte intatte, benché il coinvolgimento della popolazione civile sembri costituire, sia pure (perlomeno in apparenza) con gradi differenti di intenzionalità, l’essenza stessa delle operazioni militari in corso di svolgimento, per entrambe le parti che ne sono protagoniste (in assonanza, oltre che con le note tesi di M. Kaldor, anche con quanto teorizzato, già negli anni ’30 del secolo scorso, dalla filosofa e mistica di origine ebraica Simone Weil, in relazione, peraltro, all’essenza di qualsiasi conflitto armato).
Ad attenuare siffatto scetticismo non contribuisce, per la verità, neanche un’ulteriore ipotesi, non considerata da parte degli estensori della Joint Declaration (e neanche nell’intervento di Marco Pertile), ma che pure potrebbe essere tracciata, con riferimento ai gravissimi problemi umanitari posti dai bombardamenti israeliani.
Benché sia dubbio che, a seguito del desengagement del 2005, Israele possa considerarsi come Stato effettivamente occupante la Striscia di Gaza (sul punto, v. la sentenza della Corte Suprema d’Israele dell’ 11 giugno 2008, nel caso A and B v. State of Israel: par. 11), è infatti chiaro che l’assetto di governo di quel territorio resta molto difficile da definirsi. Su una simile questione (idonea, evidentemente, a riflettersi anche sulla prospettiva dell’attivazione della Corte da parte della Palestina), non è naturalmente il caso di soffermarsi qui, se non per osservare che, malgrado il desengagement di Israele, poteri non irrilevanti continuano ad essere esercitabili, da parte di quello Stato, con riferimento alla Striscia. Tali poteri riguardano, com’è noto, anzitutto il controllo e l’erogazione dell’acqua e dell’elettricità, pressoché totalmente dipendenti da infrastrutture israeliane (v. il parere reso al Comitato esteri e difesa della “Knesset”, da un gruppo di internazionalisti israeliani), ma si esprimono anche, con ogni evidenza, nella capacità di riprendere, in qualsiasi momento, il completo controllo militare della striscia medesima, ciò che si è puntualmente verificato nel caso in questione (come già nel caso dell’operazione “piombo fuso”: v. ancora l’intervento di Pertile), in presenza di un apparato di governo non pienamente consolidato. Sia pure in mancanza di un “actual control”, queste circostanze potrebbero dunque indurre a rilevare che, in relazione al territorio di Gaza, sia prima dei bombardamenti sia col dispiegarsi dei medesimi, Israele abbia manifestato di esercitare attività stabilmente idonee ad incidere sulla situazione delle persone ivi abitanti e sul godimento dei diritti fondamentali di questi ultimi. Proprio questa considerazione potrebbe, a sua volta, spingere a concludere, nell’ambito di una ricostruzione “funzionalistica” della nozione di giurisdizione statale di cui all’art. 2, par. 1 del Patto sui diritti civili e politici (per la quale, oltre al sottoscritto, v., più di recente, Shany), che l’obbligo di realizzare nella zona della Striscia i diritti fissati dal Patto (“Each State Party to the present Covenant undertakes to respect and to ensure to all individuals within its territory and subject to its jurisdiction the rights recognized in the present Covenant […]”), in particolare il diritto alla vita delle persone appartenenti alla popolazione civile ivi residente, non possa che incombere su Israele, nel quadro della campagna aerea ancora in corso. Contro una simile conclusione non potrebbe del resto addursi l’argomento che i bombardamenti israeliani, pur lesivi del diritto alla vita delle suddette persone, sarebbero giustificati, in quanto misure riconducibili alla clausola di deroga del rispetto del Patto stesso, ricorrendo un’“emergenza pubblica che minacci la vita della nazione”. È appena il caso di rammentare che, ai sensi dell’art. 4, par. 1, il quale delinea l’ipotesi in questione, tali misure, non solo devono risultare strettamente finalizzate “alle esigenze della situazione”, ma devono altresì mantenersi nei limiti nel rispetto di altri obblighi derivanti dal diritto internazionale per lo Stato che le adotti. E non vi è dubbio che fra le fonti di produzione degli obblighi suddetti rientrino i principi fondamentali del diritto umanitario (per un esplicito richiamo di detti principi, v. il Commento generale relativo alla norma in questione: par. 3), che appaiono violati nel nostro caso (v. ancora l’appello, nonché, soprattutto l’intervento di Pertile), in ragione delle concrete modalità dei bombardamenti israeliani.
Fermo restando quanto osservato, neanche deve trascurarsi, però, che il meccanismo di controllo predisposto dal Patto sui diritti civili e politici può operare solo in misura molto limitata nei confronti di Israele, dal momento che quest’ultimo Stato, pur essendo tenuto a sottoporsi ad un controllo periodico da parte del Comitato dei diritti dell’uomo, non ha ratificato il Protocollo opzionale n. 5, e non può dunque essere convenuto dinanzi al Comitato da parte di individui (nella fattispecie, dalle vittime o dai parenti delle vittime dei bombardamenti). E ciò, senza contare che il richiamo ai principi del diritto umanitario può suonare in qualche modo paradossale, nel contesto di un conflitto che sembra mostrarsi, già in partenza, radicalmente contrastante con la logica ispiratrice di tale settore del diritto internazionale (sul punto, v. anche infra). Proprio per queste ragioni, neanche il discorso or ora svolto è in grado di attenuare lo scetticismo del sottoscritto, essendo, piuttosto, idoneo a estenderlo – “rebus sic stantibus”, e con riferimento specifico al caso in questione – dal campo della giustizia penale internazionale a quello dei meccanismi di controllo del rispetto dei diritti dell’uomo.
Il mio scetticismo, è bene chiarirlo, nulla vuol togliere, peraltro, alle ragioni di chi l’appello in questione ha invece deciso di firmarlo. Malgrado sia evidente che non riesco a condividere “la maggiore fiducia”, espressa da un giurista impegnato, come Fabio Marcelli, nei confronti della giustizia penale internazionale, nulla da eccepire ho, insomma, rispetto alle ragioni da lui fatte valere in ordine alla firma della Joint Declaration, in particolare, rispetto alla nobile affermazione secondo cui “l’appellarsi alla giustizia e al diritto” costituisce un’esigenza “spontanea”, per le vittime di simili tragedie (meglio, per tutte le vittime di simili tragedie).
Analogamente degno di considerazione mi pare, del resto, il discorso complessivamente svolto da Marco Pertile. Benché trovi eccessiva l’enfasi da lui posta sulla valenza positiva dell’uso del linguaggio giuridico (internazionalistico) nel corso di questa vicenda (si tratta in realtà di una tendenza inveterata, su cui molto si potrebbe discutere; si pensi – per far solo un esempio – che anche le malcerte motivazioni, addotte dalla dirigenza russa nel corso della crisi in Crimea, sono tutte pur sempre fondate sull’utilizzazione di categorie giuridiche internazionalistiche: v., ad es., Tancredi e, volendo, De Sena e Gradoni), mi è difficile non intravedere, nella trama complessiva del suo intervento e nella puntuale ricostruzione delle violazioni consumatesi, tracce di una “lotta” appassionata per l’affermazione del diritto internazionale. Conoscendo l’obbiettività di Pertile (di cui è prova un saggio sugli aspetti umanitari dell’operazione “piombo fuso” di qualche anno fa), mi viene anzi spontaneo domandarmi se una simile impostazione non sia in qualche modo riconducibile alla più ampia e nota prospettiva della “lotta per il diritto”, disegnata a suo tempo da Jhering, come oggetto di un imperativo etico individuale, e chiaramente ascrivibile alla tradizione (politico-giuridica) liberale europea.
Quel che meno mi risulta comprensibile, sia nell’intervento di Marcelli, che in quello di Pertile, è, però, la garbata, ma netta chiusura nei confronti della salutare prospettiva critica che, con ogni evidenza, ispira il post di Lorenzo Gradoni; e ciò, beninteso, a prescindere dalla condivisibilità delle singole argomentazioni sulle quali tale prospettiva risulta articolata. Non mi è insomma facile comprendere perché si debba ritenere che siffatta prospettiva sottenda un atteggiamento idoneo a rendere il dibattito potenzialmente “accademico” ed “astratto”, a fronte della tragedia della popolazione civile della Striscia. Né mi è del tutto chiaro per quale ragione – principalmente per Marcelli, ma anche per Pertile – il richiamo all’applicazione del diritto internazionale, per il tramite della giustizia penale internazionale, costituirebbe, se non l’unica, perlomeno la principale risposta concreta all’ennesima crisi cui stiamo assistendo.
Per quanto sono venuto dicendo, dovrebbero esser chiare le ragioni di fondo per cui una simile posizione – che è alla base della Joint Declaration – non mi convince con specifico riferimento allo strumento della giustizia penale internazionale. Vorrei però qui sottolineare che nella stessa direzione mi spingono le considerazioni che ho svolto riguardo alle particolarità della vicenda in esame dal punto di vista del diritto umanitario vigente. Se è vero insomma che il conflitto in corso si caratterizza per l’attitudine delle sue parti a coinvolgere la popolazione civile, sistematicamente e su basi di tendenziale reciprocità – in radicale contrasto, a me pare, con la logica di fondo del sistema del diritto umanitario – non può non sorgere qualche dubbio sulla stessa idoneità di detto sistema a fungere davvero da strumento di regolazione dei comportamenti degli attori di simili vicende. Per esempio: può avere realisticamente senso, in un contesto del genere, appellarsi al principio di proporzionalità? Non può ritenersi che quest’ultimo principio risulti, viceversa, radicalmente messo fuori gioco dalle stesse forme di manifestazione del conflitto in corso? E non dovrebbe giungere a tale conclusione proprio chi ipotizza – o lascia intendere – che i bombardamenti condotti da Israele nella Striscia siano stati specificamente preordinati a colpire obiettivi civili?
Questioni analoghe, non retoriche e di più ampia portata, possono porsi, del resto, se si ritorna, per un attimo ancora, sulle (assai) problematiche prospettive di utilizzazione dello strumento della giustizia penale internazionale nel caso in esame. Un’opportuna sottolineatura, effettuata da Luca Pasquet nel corso di questo dibattito, rende qui agevole ricordare che la costruzione di un sistema di giustizia penale internazionale realmente universale, oltre a rappresentare uno degli obbiettivi primari della prospettiva teorica del “pacifismo istituzionale” (prospettiva delineata soprattutto da Kelsen e Bobbio, come osserva Danilo Zolo), ha costituito uno dei punti di forza della concezione – sempre di marca liberale e largamente diffusa nella cultura giuridica internazionalistica europea e statunitense – secondo la quale il diritto internazionale dovrebbe considerarsi come una sorta di recta ratio regolativa dei rapporti fra Stati (v. la ricostruzione effettuata da M. Koskenniemi nella sua opera assai nota The Gentle Civilizer of Nations. The Rise and Fall of International Law 1870–1960, di cui è ora disponibile una versione italiana, grazie anche all’impegno di Lorenzo Gradoni). Ebbene, può affermarsi che una compiuta realizzazione di tale sistema – che è parsa ad alcuni a portata di mano nelle particolari condizioni storico-politiche della fine degli anni ‘90 e dei primi anni 2000, con l’istituzione della Corte penale internazionale – sia ancora oggi all’ordine del giorno? In che misura (if any) può affermarsi che detto sistema (continuo a riferirmi ovviamente alla Corte penale internazionale), alla luce dell’esperienza concreta che finora ne è stata fatta, costituisca uno strumento davvero utile? O deve piuttosto concludersi che la giustizia penale internazionale universale, concepita – perlomeno in parte – per trascendere, su un piano giudiziario, la dimensione politica di crimini assai gravi, rischi di essere stritolata proprio dall’uso marcatamente … politico che sinora se n’è fatto? Ed ancora: se è davvero questo il rischio che oggi corre la Corte penale internazionale, non può forse ritenersi che esso sia, perlomeno in parte, inevitabile, a fronte della pretesa – connessa alla prospettiva teorica cui la Corte è riconducibile – di attribuire al diritto internazionale il rango di razionalità regolativa superiore dei rapporti fra Stati sovrani, perciò stesso tendenzialmente esclusiva, ed (implausibilmente) impermeabile rispetto alla dimensione politica dei rapporti fra detti Stati (pur sempre … sovrani)?
Lungi da me, com’è ovvio, anche il solo tentativo di abbozzare tracce di risposta, alle questioni non retoriche appena poste, in una sede come questa. Fatto sta che è proprio a questioni di tal genere che le drammatiche – ma non nuove – vicende della Striscia di Gaza mi hanno spinto a porre mente; e fatto sta che proprio i dubbi associati a tali questioni, insieme alle considerazioni sviluppate in precedenza, mi hanno indotto a non firmare la Joint Declaration.
Ciò detto, mi rendo conto, a questo punto, di esser destinato ad incorrere io stesso nella censura già mossa, più o meno esplicitamente, a Lorenzo Gradoni. Sono responsabile, cioè, di non offrire alcuna ipotesi di soluzione, nessuna traccia di risposta concreta, a fronte dei drammatici – ma non nuovi – avvenimenti di cui si discute. E in effetti è vero; non credo di avere risposte, al di là delle riflessioni e delle questioni qui accennate, e di alcuni contenuti, peraltro minimi della Joint Declaration (= la costituzione di una commissione d’inchiesta su quello che si sta verificando). Forse, potrei aggiungere, neppure rischio risposte erronee; ma non so se questo sia da considerarsi un merito, visto, tra l’altro, l’apprezzamento che io stesso nutro per chi tali risposte rischia di darle, ad esito di un autentico impegno sul campo, e viste le potenzialità euristiche che si possono riconoscere all’ …“errore” anche sul piano scientifico.
In linea con la mia inconcludenza propositiva, se non con il mio “disfattismo”, vorrei allora chiudere con un’ultima questione. Mi domando, cioè, se sia davvero una risposta più concreta, in una situazione simile sottoscrivere un appello – senz’altro nobile, e in parte congruo, seppure non nuovo – oppure provare a far maturare le questioni, i dubbi, le perplessità che tale situazione non manca di porre, sotto vari profili. Questa volta, per quanto mi riguarda di persona, la domanda è evidentemente retorica e la risposta è nei fatti. Forse è anche una domanda irricevibile, me ne rendo conto, per i molti che operano sul campo (e C. Meloni mi pare essere fra questi). Ma per gli altri?
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