La Corte di Strasburgo e il divieto di burqa: osservazioni critiche
Ivan Ingravallo è professore associato di Diritto internazionale, Università degli Studi di Bari Aldo Moro
1. La sentenza emessa il 1° luglio 2014 dalla Grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso S.A.S. c. Francia (ricorso n. 43835/11) si occupa della compatibilità con la CEDU) della legge francese n. 2010-1192, che pone il divieto di coprire il volto nei luoghi pubblici, sanzionando eventuali violazioni dello stesso con una multa (eventualmente affiancata dall’obbligo di seguire dei corsi di educazione alla cittadinanza). La legge, approvata a stragrande maggioranza dal Parlamento francese, suscitò le animate proteste di quanti ritenevano che l’apparenza di un divieto generico celasse l’intenzione di colpire le donne di religione musulmana che indossano indumenti come il burqa, che nasconde il volto del tutto, o il niqab, che lascia solo una fessura per gli occhi. È esattamente una vicenda di questo tipo che ha costituito oggetto del ricorso presentato dinanzi alla Corte di Strasburgo da una giovane donna, nata in Pakistan e cittadina francese, che ha lamentato la violazione degli articoli 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), 8 (diritto alla vita privata e familiare), 9 (diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione), 10 (diritto alla libertà di espressione) e 11 (diritto di associazione), oltre che dell’art. 14 (divieto di discriminazione) CEDU.
La Corte si è trovata nella non facile posizione di deliberare in merito ad una vicenda assai delicata sotto il profilo politico, oltre che giuridico e sociale, perché tocca il nervo scoperto del rapporto tra culture, tradizioni e fedi differenti negli Stati parti della CEDU, che sempre più emerge, anche a seguito del costante aumento dei flussi di stranieri che, per i motivi più svariati, si trovano sul territorio di questi Stati (sotto la loro jurisdiction, per richiamare il contenuto dell’art. 1 CEDU). La Cotre, a grande maggioranza (15 voti a 2, con le giudici Jäderblom e Nußberger che hanno presentato un’opinione parzialmente dissenziente), ha affermato l’insussistenza della violazione della CEDU. Essa ha mostrato piena consapevolezza delle questioni in causa. In anni recenti contro il divieto di indossare quegli indumenti vi sono state qualificate prese di posizione (tra cui quelle dell’Assemblea parlamentare e del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nonché del Comitato dei diritti umani dell’ONU). Inoltre, nella controversia in commento sono intervenute, a sostegno della ricorrente e contro il Governo francese (sostenuto invece dal Belgio), diverse ONG, oltre al Centro per i diritti umani dell’Università di Gand.
2. Sotto il profilo della ricevibilità, bene ha fatto la Corte a respingere le eccezioni preliminari francesi, che asserivano l’irricevibilità del ricorso perché ipotetico (esso è stato avanzato l’11 aprile 2011, data di entrata in vigore della legge francese e non è stato proposto in seguito ad un atto compiuto dalle autorità francesi nei suoi confronti) e perché non erano stati esauriti i mezzi di ricorso interni. Sotto il primo profilo la Corte riconferma la propria precedente giurisprudenza che, sia pure in via eccezionale, dà rilievo al carattere di “vittima potenziale” ai fini della legittimazione a ricorrere (§57); tale circostanza è utilizzata dalla Corte anche per escludere l’irricevibilità del ricorso in quanto abusivo, poiché sarebbe un’actio popularis (§§62-68). Per respingere invece l’obiezione del Governo francese in merito al mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni, la Corte richiama le pronunce dei massimi organi giurisdizionali francesi (Consiglio costituzionale e Corte di cassazione), che hanno dichiarato legittima la legge 2010-1192 (§61).
3. Nel merito della controversia, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata sia l’asserita violazione dell’art. 3 (§70), sia quella dell’art. 11 (§73), concentrando la sua attenzione sulla violazione degli articoli 8 e, soprattutto, 9, considerati come quelli effettivamente chiamati in causa in questa vicenda (§109) e rispetto ai quali essa ha considerato prive di un rilievo autonomo le possibili violazioni degli articoli 10 e 14 (§§162-163).
Le parti concordano che il divieto generale di coprire interamente il volto è una limitazione al diritto posto dall’art. 9 CEDU, il quale non ha però un carattere assoluto (al pari dell’art. 8). Il par. 2 di questa disposizione, infatti, consente le limitazioni stabilite dalla legge (ciò è pacifico nel caso in commento) e che sono necessarie in una società democratica per garantire la pubblica sicurezza, proteggere l’ordine, la salute o la moralità pubblica o per tutelare i diritti e le libertà degli altri individui (limitazioni simili, per quanto qui rileva, sono poste dal par. 2 dell’art. 8 CEDU). Al riguardo, la Corte conferma la propria giurisprudenza in base alla quale le limitazioni dei diritti posti dagli articoli 8 e 9 hanno carattere tassativo e vanno interpretate in modo restrittivo (§113).
Secondo la ricorrente non sarebbe invocabile alcuna di queste cause, mentre il Governo francese ritiene giustificata la limitazione dei diritti della ricorrente, richiamando in particolare l’esigenza di difendere la pubblica sicurezza e, con riferimento all’eccezione della tutela dei diritti e delle libertà degli altri, introducendo la nozione di “rispetto di uno standard minimo di valori in una società aperta e democratica”. A tale ultimo riguardo, lo Stato convenuto identifica tre valori: eguaglianza tra uomo e donna, rispetto della dignità umana, rispetto dei requisiti minimi della vita sociale (definito come “vivere insieme”). Esso, inoltre, afferma che la legge 2010-1192 pone una limitazione necessaria e proporzionata e a tal fine richiama anche il ben noto criterio dell’ampio “margine di apprezzamento” circa il rapporto tra interesse statale e diritti dei privati, che la Corte ha a più riprese riconosciuto agli Stati parti della CEDU nell’applicazione della stessa.
4. La Corte valuta legittimo richiamare esigenze di pubblica sicurezza e, pur se non è espressamente previsto dall’art. 9, par. 2, CEDU (§114), anche il concetto del rispetto di uno standard minimo di valori in una società aperta e democratica, che essa riconduce alle nozioni di ordine pubblico e di tutela dei diritti e delle libertà degli altri. Peraltro, con riferimento al requisito della necessità, essa non ritiene che il divieto generale di indossare abiti che coprono interamente il volto possa essere giustificato per motivi di pubblica sicurezza, nel nome dell’uguaglianza tra uomini e donne o del rispetto della dignità umana. La Corte formula considerazioni diverse sul terzo dei valori richiamati dal Governo francese, poiché afferma che il volto ha un ruolo importante nell’interazione tra gli individui. La Corte considera quindi in principio giustificata la legge francese (§142) e passa a valutare il valore del “vivere insieme” alla luce dell’altro requisito, quello della proporzionalità.
Qui la sentenza prende una “strana piega”. Secondo la Corte, infatti, il divieto generale pare eccessivo (§145), alcune donne potrebbero percepirlo come una minaccia alla loro identità (§146), numerosi soggetti internazionali e ONG, come già segnalato, hanno definito un simile divieto come sproporzionato (§147) e, infine, questa legislazione statale rischia di consolidare stereotipi anti-islamici e di favorire l’intolleranza (§149). Ma, invece di concludere nel senso della non proporzionalità del divieto generale rispetto al fine perseguito, la Corte, considerate la genericità del divieto e la lievità delle pene previste per chi lo viola (anche se, fanno notare le due giudici dissenzienti, una sanzione pecuniaria lieve, se ripetuta nel tempo, può divenire assai cara), accoglie la posizione del Governo francese secondo cui quel divieto generale è giustificato in quanto tutela il valore del “vivere insieme”. A tal riguardo viene in rilievo l’affermazione, svolta in generale dalla Corte, secondo la quale il meccanismo di controllo previsto dalla CEDU ha un ruolo sussidiario rispetto alle scelte democraticamente assunte dagli Stati parti (§129). Questa affermazione apre la strada al riconoscimento di un ampio margine di apprezzamento per lo Stato francese, che porta la Corte a considerare proporzionato il divieto generale di cui alla legge 2010-1192 rispetto alla limitazione dei diritti di cui agli articoli 8 e 9 CEDU.
5. La sentenza in commento presenta profili critici proprio in riferimento alla proporzionalità del divieto generale rispetto all’obiettivo perseguito. Si sarebbe potuto limitare il divieto a determinati luoghi pubblici particolarmente soggetti a speciali misure di sicurezza o comunque prevedere modalità diverse di interazione con coloro che scelgono liberamente e spontaneamente di indossare abiti che coprono interamente il volto (ad esempio, sanzionando gli eventuali rifiuti di mostrare il volto ai fini del riconoscimento in luoghi o locali pubblici a fronte di richieste formulate da pubblici funzionari). Appare inoltre contradditorio che la Corte, dopo aver esaminato la legislazione degli Stati parti alla CEDU e aver trovato che solo il Belgio ha approvato nel 2011 una legge che pone una disciplina equivalente a quella francese, abbia negato l’esistenza di un comune sentire europeo contro il divieto generale di indossare indumenti che coprono interamente il corpo (§156), come invece sostenuto da una delle ONG intervenute (§105; questo è anche uno degli elementi alla base del voto contrario delle due giudici summenzionate). Un altro profilo critico riguarda il ruolo sempre maggiore che stanno acquisendo la sussidiarietà e il margine di apprezzamento, nel senso di rendere più prudente la giurisprudenza della Corte e, in prospettiva, anche di limitare la sua competenza (v. il recente studio critico di E. Nalin, I Protocolli n. 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Studi sull’integrazione europea, 2014, p. 117 ss.).
6. In senso più ampio, la sentenza del 1° luglio 2014 non appare incoraggiante nella prospettiva dell’integrazione di culture e prassi nuove nel contesto della tutela dei diritti umani in Europa. La Corte ha privilegiato un approccio tradizionale, a difesa dei valori storico-culturali europei, piuttosto che optare per una scelta di apertura e di integrazione nei confronti di manifestazioni culturali e religiose che, se possono apparire “strane” e in alcuni suscitare talora fastidio, denotano comunque un tratto della personalità degli individui, che la Corte ha messo in secondo piano. Né essa ha dato rilievo alla circostanza che un divieto generale di indossare indumenti come il burqa non produce la loro eliminazione, quanto piuttosto l’emarginazione dalla vita e dagli spazi pubblici di chi lo indossa spontaneamente, realizzando un risultato opposto a quello perseguito (“liberare” le donne dal burqa). Sul punto, che sembra dirimente, lo stesso Governo francese si è mostrato elusivo, limitandosi ad affermare l’irrilevanza nel caso in discussione (la ricorrente ha affermato di non indossare il burqa o il niqab in ogni circostanza), mentre il Governo belga ha assunto una posizione più drastica, dichiarando che la scelta di rimanere in casa sarebbe “the result of their own choice and not an illegitimate constraint imposed on them by the Law” (§88), affermazione che non favorisce l’integrazione tra individui aventi convinzioni diverse.
La responsabilità di una scelta di chiusura verso chi sceglie di indossare abiti che coprono il volto è delle autorità francesi, ma questa sentenza rischia di essere un segnale di sostegno della Corte nei confronti di tale scelta, allontanandola anche dalla sua consolidata affermazione secondo cui la CEDU costituirebbe “uno strumento vivente”, che segue i cambiamenti della società. Ci si può anche chiedere cosa differenzi il divieto generale (francese) di indossare un indumento che copre interamente il volto dai divieti (presenti nella legislazione di taluni Stati islamici) di indossare indumenti che invece scoprono determinate parti del corpo. L’approccio sembra infatti essere il medesimo, ossia (in definitiva) una limitazione del diritto di ogni individuo di scegliere come vestirsi, considerato quale manifestazione della sua personalità. E, seguendo questo approccio, si potranno ancora criticare i divieti generali di altri Stati che risultano essere in contrasto con i valori occidentali, se gli stessi valori vengono utilizzati per giustificare corrispondenti divieti generali? Almeno con riferimento ad un tema “frivolo” come l’abbigliamento l’integrazione andrebbe favorita attraverso il rispetto e l’accettazione di costumi e tradizioni differenti, piuttosto che perseguendo l’uniformazione di tutti al modello occidentale.
2 Comments
La sentenza SAS della CEDU manifesta il più recente orientamento della Corte Europea indirizzato a prendere decisioni difformi in relazione all’uso dei simboli di appartenenza religiosa. Il punto essenziale della sentenza in oggetto è il principio di uguaglianza tra uomo e donna che nell’Islam viene interpretato come” diritto proprio della donna”diverso dal diritto dell’uomo. la velazione , in particolare, è considerata necessaria e non per la donna in relazione alla considerazione del suo status e il suo uso è diverso nei paesi di religione islamica, ad esempio in Albania non si porta il velo . La Corte ha dato una giusta sentenza anche in relazione al concetto sociale del “vivere insieme” di una comunità politica
La sentenza SAS della CEDU manifesta il più recente orientamento della Corte Europea indirizzato a prendere decisioni difformi in relazione all’uso dei simboli di appartenenza religiosa. Il punto essenziale della sentenza in oggetto è il principio di uguaglianza tra uomo e donna che nell’Islam viene interpretato come” diritto proprio della donna”diverso dal diritto dell’uomo. la velazione , in particolare, è considerata necessaria e non per la donna in relazione alla considerazione del suo status e il suo uso è diverso nei paesi di religione islamica, ad esempio in Albania non si porta il velo . La Corte ha dato una giusta sentenza anche in relazione al concetto sociale del “vivere insieme” di una comunità politica