La Corte di giustizia UE ed i “principi” della Carta dei diritti fondamentali nella sentenza Glatzel
Nicole Lazzerini è assegnista di ricerca in diritto dell’Unione europea, Università degli Studi di Parma
Il primo riferimento esplicito della Corte di giustizia ad una delle clausole orizzontali della Carta dei diritti fondamentali più controversa dal punto di vista politico e costituzionale – l’art. 52, par. 5 – è arrivato nella sentenza con cui, lo scorso 22 maggio, la quinta sezione ha deciso il rinvio pregiudiziale di validità C-356/12, Wolfgang Glatzel c. Freistaat Bayern affermando che le soglie minime di acutezza visiva per il rilascio delle patenti C1 e C1E previste dalla Direttiva 2006/126/CE (almeno 0,8 per l’occhio più sano e almeno 0,1 per l’occhio meno sano) sono conformi agli artt. 20, 21 e 26 della Carta (rispettivamente, “Uguaglianza davanti alla legge”, “Non discriminazione” e “Inserimento delle persone con disabilità”). In particolare, la validità delle pertinenti disposizioni non sarebbe inficiata dal fatto che esse precludono il rilascio di tali patenti ai candidati che, come il ricorrente nel procedimento principale, soffrono di una patologia (l’ambliopia monolaterale) per cui l’acutezza visiva dell’occhio meno sano risulta inferiore alla soglia, mentre quella binoculare soddisfa i requisiti.
Questo post si limita ad esaminare brevemente la parte del ragionamento della Corte relativo all’art. 52, par. 5, senza entrare nel tema “sostanziale” della causa, la non-discriminazione a motivo della disabilità (sulla quale si veda anche la sent. 18 marzo 2014, causa C-363/12, Z.). Un punto, infatti, sembra difficilmente contestabile, ed è ciò che muove a cimentarsi con i sei non cristallini paragrafi della sentenza Glatzel dedicati alla questione: la quinta sezione ha voluto aprire il dibattito sul significato dell’art. 52, par. 5, all’interno della giurisprudenza della Corte di giustizia, laddove la Grande sezione aveva in precedenza “accuratamente” aggirato l’ostacolo almeno in due sentenze (la 24 gennaio 2012, causa C-282/10, Dominguez, e la recente 15 gennaio 2014, causa C-176/12, Association de médiation sociale, in cui il silenzio della Corte contrasta nettamente con la lunga analisi svolta sul punto dall’AG Cruz Villalón). A differenza di quanto era avvenuto nelle due cause da ultimo citate, l’AG Bot non aveva fatto alcun riferimento all’art. 52, par. 5, nelle sue conclusioni alla causa Glatzel; seguendone l’esempio, la Corte avrebbe potuto menzionare l’art. 26 (secondo cui “L’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”) in sede di sindacato della compatibilità della Direttiva con l’art. 21 della Carta (divieto di discriminazione a motivo di disabilità).
Come noto, l’art. 52, par. 5, introduce una distinzione tra le disposizioni della Carta che garantiscono “diritti” e quelle che contengono “principi”, prevedendo per queste ultime un regime di giustiziabilità più limitato rispetto alle prime. Esse “possono essere attuate da atti legislativi ed esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché danno attuazione al diritto dell’Unione, (…) [e] possono essere invocate dinanzi ad un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”. Introdotto solo in sede di “rimaneggiamento” delle clausole orizzontali della Carta da parte della Convenzione sul futuro dell’Europa, l’art. 52, par. 5, ha consentito di superare l’opposizione di alcuni Stati membri (il Regno Unito in primis, ma non solo) all’inclusione di diritti fondamentali sociali all’interno di un documento destinato a divenire diritto primario dell’Unione europea (al tempo, come parte seconda dell’abortita Costituzione europea). Se è innegabile che la norma limita gli effetti delle disposizioni che contengono “principi”, la soluzione accolta dall’art. 52, par. 5, si distacca dalle esperienze nazionali che escludono tout court la giustiziabilità dei principi di politica sociale (come l’Irlanda), avvicinandosi piuttosto a quegli Stati membri (Francia, Spagna, e Polonia, ad esempio) le cui Costituzioni (o Corti costituzionali) ne ammettono una qualche rilevanza nell’ambito del sindacato degli atti del legislatore (cfr. le conclusioni dell’AG in Association de médiation sociale, paragrafi 48 e 49, e C. Ladenburger, Report FIDE 2012, punto 4.1).
Allo stesso tempo, però, l’interpretazione dell’art. 52, par. 5, non manca di sollevare problemi, in particolare, per quanto riguarda la determinazione degli effetti dei “principi” e del novero di atti UE e nazionali sindacabili alla luce degli stessi. Inoltre, la sua applicazione è resa difficoltosa dalla mancata individuazione delle disposizioni che contengono “principi” (o di criteri atti a individuarli). In particolare (e questo è un altro elemento positivo del compromesso), non c’è niente nella Carta o nelle sue Spiegazioni che “condanni” al più modesto regime dei “principi” tutte le disposizioni relative a diritti sociali fondamentali.
Veniamo quindi a quanto sembra emergere dalla sentenza Glatzel rispetto ai tre profili problematici evidenziati.
La Corte ha richiamato l’art. 52, par. 5, durante l’esame della conformità della Direttiva con l’art. 26 della Carta, dopo aver ritenuto, da un lato, che le disposizioni sulle soglie minime di acutezza visiva non costituiscono una violazione del principio di non discriminazione a motivo della disabilità di cui all’art. 21, par. 1, della Carta stessa (perché la differenza di trattamento riguarda un requisito “essenziale e determinante” per lo svolgimento dell’attività e la limitazione rispetta il principio di proporzionalità: par. 48-66), e, dall’altro, che la Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili (di cui anche l’Unione è parte) non può incidere su tali disposizioni. Ciò in quanto, secondo una giurisprudenza della Corte non esente da critiche, le norme degli accordi internazionali vincolanti per l’UE possono fungere da parametro di validità degli atti derivati solo se dotate di effetti diretti, e tale non sarebbe il caso della Convenzione ONU in questione; inoltre, la Direttiva enuncia delle regole chiare, che non lasciano margini per un’eventuale interpretazione conforme (par. 67-71).
La Corte ha affermato la natura di “principio” dell’art. 26 basandosi sulle indicazioni contenute nelle spiegazioni degli artt. 26 e 52, par. 5: la prima parla, appunto, di “principio” modellato sull’art. 15 della Carta sociale europea, mentre la seconda cita “a titolo illustrativo (…) come esempi di principi riconosciuti nella Carta gli articoli 25, 26 e 37”. Mettendo da parte le considerazioni sulla rilevanza ai fini interpretativi delle Spiegazioni (che qui sembrano ricevere da parte della Corte più del “debito conto” di cui agli artt. 6, par. 1, comma 3, TUE e 52, par. 7, della Carta: cfr. anche la sent. 27 maggio 2014, C-129/14 PPU Spasic, par. 54), il fatto che i giudici non abbiano affrontato il tema degli elementi distintivi dei “principi” rispetto ai “diritti” lascia intatti tutti i problemi relativi alla mancanza di una classificazione (tra cui la possibilità di applicazioni difformi a livello nazionale). Dall’altro lato, il riferimento stringente alle Spiegazioni apre una prospettiva interessante per i diritti sociali fondamentali, perché consente di valorizzare l’altra indicazione dalle stesse fornita, secondo cui “in alcuni casi è possibile che un articolo della Carta contenga elementi sia di un diritto sia di un principio, ad es. gli articoli 23 [Parità tra donne e uomini], 33 [Vita familiare e vita professionale] e 34 [Sicurezza sociale e assistenza sociale]”.
Per quanto riguarda il problema della determinazione degli atti sindacabili alla luce dei principi, non è chiaro se la sentenza accolga l’interpretazione strettamente letterale dell’art. 52, par. 5, secondo cui i “principi” possono fungere da parametri per l’interpretazione e il controllo di validità dei soli atti UE e nazionali adottati specificamente per dare attuazione al “principio” che si invoca in giudizio. Per giustificare l’applicabilità dell’art. 26, la Corte si riferisce al considerando 14 e all’art. 5, par. 2, della Direttiva, che riguardano le disposizioni specifiche per l’accesso alla guida delle persone disabili. A parere di chi scrive, sarebbe preferibile leggere l’art. 52, par. 5, nel senso che il sindacato si estende anche a tutti gli atti UE (o nazionali, purché ricadenti nell’ambito di applicazione della Carta come delineato dal suo art. 51, par. 1) che violano un “principio”, sebbene non mirassero – a monte – a darvi attuazione. Se è vero che i “principi” richiedono, di regola, l’adozione di atti ulteriori che ne concretizzino il contenuto, ciò non toglie che il legislatore UE e quello nazionale (nei limiti anzidetti) sono sempre tenuti a “osservare” i “principi” (cfr. la prima parte dell’art. 51, par. 1, che prevede solo il limite delle competenze rispettive). Quanto appena affermato implica sicuramente che essi devono astenersi dal violarli anche (anzi, soprattutto) quando si occupano di questioni diverse dall’attuazione di un “principio” (cfr. EU Network of independent experts on fundamental rights, Commentary of the Charter of Fundamental Rights of the European Union, p. 405-409). Tuttavia, poiché il caso riguardava pacificamente un atto UE di attuazione “in senso stretto” di un “principio”, si può pensare che la Corte non abbia inteso escludere questo secondo novero di atti.
L’aspetto apparentemente più problematico del ragionamento della Corte riguarda il profilo degli effetti dei “principi”. Pur avendo affermato l’applicabilità dell’art. 26, la Corte non ha effettuato nessun controllo di validità della Direttiva alla luce di questa disposizione, piuttosto affermando che il “principio” richiede degli atti UE o nazionali di concretizzazione “per produrre pienamente effetti”, ma che il legislatore UE non è tenuto ad adottare alcuna misura particolare. Desta preoccupazione il richiamo al criterio elaborato nella sentenza Association de médiation sociale per stabilire se una disposizione della Carta abbia effetti diretti (essa deve “conferire di per sé ai singoli un diritto soggettivo autonomamente azionabile”). Con l’eccezione della giurisprudenza sugli accordi internazionali conclusi dall’UE, il fatto che una norma UE di rango primario o intermedio non sia idonea a produrre effetti diretti non pregiudica la sua funzione di parametro di validità del diritto derivato UE. Soprattutto, l’art. 52, par. 5, fa espresso riferimento a questa funzione dei “principi”, così come ne esclude l’invocabilità diretta. Sarebbe quindi addirittura contra legem collegare il controllo di validità alla luce dei “principi” all’effetto diretto delle disposizioni che li contengono.
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