Il provvedimento del Tribunale di Grosseto sul riconoscimento dei matrimoni same-sex: prime riflessioni
Con un provvedimento del 3 aprile 2014, il Tribunale di Grosseto ha ordinato all’ufficiale di stato civile la trascrizione del matrimonio tra due uomini, cittadini italiani, celebrato secondo le forme previste nello Stato di New York (ai sensi del Marriage Equality Act).
Per la prima volta il giudice italiano ha dunque concesso l’ingresso nell’ordinamento del foro ad un matrimonio tra persone dello stesso sesso per il mezzo della trascrizione del relativo atto amministrativo, veicolo – come è noto – attraverso il quale si manifestano e circolano gli status che da tali atti derivano (la questione della distinzione tra accettazione di un atto pubblico straniero e riconoscimento degli status correttamente creati all’estero è affrontata nella proposta di regolamento sulla circolazione degli atti pubblici in Europa su cui v. questo post).
Per la prima volta, nel 2005, un caso pressoché analogo si era presentato dinanzi all’ufficiale di stato civile del Comune di Latina, a cui una coppia di uomini italiani sposati a L’Aja aveva chiesto la trascrizione dell’atto di matrimonio: proprio avverso il rifiuto opposto dall’ufficiale, sulla base della contrarietà di tale atto all’ordine pubblico (ex art. 18 del dPR. 396/2000 recante il regolamento in materia di ordinamento dello stato civile), i ricorrenti avevano proposto appello, sino a giungere dinanzi alla Corte di cassazione, che si era da ultimo pronunciata con sentenza 15 marzo 2012, n. 4184, più volte richiamata anche dal Tribunale di Grosseto.
Sia pure condivisibile nel risultato, non ci si può sottrarre dal notare come dal punto di vista giuridico il ragionamento del tribunale non poggi su basi solide: il provvedimento del Tribunale di Grosseto costituisce tuttavia occasione per sollevare nuovamente il dibattito sul delicato tema del riconoscimento, alle coppie omosessuali, del diritto a contrarre matrimonio.
Le perplessità suscitate dalla pronuncia riguardano, “a monte”, A) i motivi sottesi alla decisione del tribunale nonché, “a valle”, B) gli effetti di tale trascrizione nel nostro ordinamento.
A) Sono quattro le ragioni addotte dal Tribunale di Grosseto a sostegno della propria decisione.
Con i primi due – laconici – motivi, il tribunale considera che il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso “non è contrario all’ordine pubblico” e che nelle norme di cui agli articoli 84-88 cc, che stabiliscono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio, “non [sia] individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie per contrarre matrimonio”. I due punti, strettamente connessi, suscitano alcune incertezze, almeno sotto due profili.
Si ripropone, da un lato, la questione relativa al richiamo alla clausola dell’ordine pubblico operato dall’art. 18 dPR. 396/2000 (su cui v. Tribunale di Latina, decreto 10 giugno 2005), senza peraltro che il Tribunale di Grosseto fornisca alcun ragguaglio circa i principi e le norme che lo compongono. Tale nozione deve essere intesa in senso internazionalprivatistico; l’ordine pubblico deve pertanto interpretarsi come ordine pubblico internazionale, la cui natura è più ristretta – ma “essenziale”, ridotta ai principi inderogabili originanti dalla Costituzione, ma anche dall’ordinamento internazionale o sovranazionale – rispetto a quella dell’ordine pubblico interno. Tuttavia, non si tratta, in questo caso, i) né di dare applicazione ad una normativa straniera richiamata da una norma di conflitto del foro (tanto più che le norme di conflitto menzionate dal giudice in tema di capacità a contrarre matrimonio richiamano la legge nazionale dei nubendi, ossia quella italiana), ii) né tantomeno di riconoscere un provvedimento straniero nei suoi contenuti.
Dall’altro lato, pur non rinvenendosi alcuno specifico riferimento né nella Costituzione né nel codice civile, secondo costante giurisprudenza la diversità di sesso dei nubendi – insieme alla loro manifestazione di volontà matrimoniale espressa dinanzi all’ufficiale civile incaricato della celebrazione – costituisce “requisito minimo indispensabile per la stessa ‘esistenza’ del matrimonio civile come atto giuridicamente rilevante”, quale condizione “richiesta dalla legge per la … identificabilità giuridica dell’atto di matrimonio” (Cass., sent. n. 4184/12). Allo stesso modo si era già espressa anche la Corte costituzionale che – pur postulando un’interpretazione flessibile e non cristallizzata della Costituzione, in linea con l’evolversi della realtà sociale giuridica europea ed extraeuropea, alla luce della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nonché della giurisprudenza della Corte europea – ha concluso che “l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi”, non potendo essere superato il significato del precetto costituzionale per via ermeneutica “creativa” (Corte cost., sent. 15 aprile 2010, n. 138, ma v. anche ord. 5 gennaio 2011, n. 4).
Con il terzo motivo è fatto presente come l’art. 27 della l. 218/95 di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato – la norma di conflitto che individua nella legge nazionale dei nubendi le condizioni per contrarre matrimonio – contiene “un implicito richiamo alle condizioni necessarie per contrarre matrimonio” di cui agli articoli 84-88 cc. Non vi è dubbio che il giudice compia qui un’affermazione di sostanza, ritenendo ovvero valido ed efficace nel nostro ordinamento il matrimonio same-sex contratto da due cittadini italiani, tanto all’estero quanto in Italia.
Osserva da ultimo il Tribunale – quasi “raddrizzando il tiro” – che “è incontestato che il matrimonio celebrato all’estero è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo della celebrazione, come nel caso di specie”, ai sensi dell’art. 28 della l. 218/95 (disposizione notoriamente informata al principio del favor validitatis, ma non del favor matrimonii…). La contraddizione in cui incorre il giudice di Grosseto risiede dunque nel ricorrente intreccio tra il piano sostanziale, ossia il “contenuto” dell’atto pubblico, la validità dello status di “coniugato” che da esso deriva, ed il piano formale, ossia lo strumento di circolazione nonché l’efficacia meramente probatoria dell’atto di matrimonio.
Tale valutazione appare tanto più stridente in quanto il Tribunale di Grosseto sembra trascurare completamente il concetto di inidoneità (a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano) coniato dalla Cassazione nella sent. n. 4184/12, superando la valutazione di inesistenza delle unioni tra persone dello stesso sesso, in sede di trascrizione nei registri dello stato civile.
B) A questo riguardo, un altro sicuro punto debole del provvedimento, “a valle”, discende dal fatto che esso non si sofferma sulla questione degli effetti del riconoscimento del matrimonio estero, limitandosi alla constatazione che la trascrizione dell’atto di matrimonio nei registri italiani dello stato civile non avrebbe “natura costitutiva ma soltanto certificativa e di pubblicità di un atto già valido di per sé sulla base del principio tempus (ma in realtà: locus, n.d.R.) regit actum”. In proposito, si può convenire sul fatto che il problema centrale in questi casi non è il riconoscimento dell’atto straniero di stato civile e la sua trascrizione nei registri italiani, bensì il riconoscimento e la circolazione dello status ad esso connesso. Come rilevato anche dalla Cassazione nella sent. 4184/12, quest’ultima questione ha carattere pregiudiziale perché un atto straniero di stato civile può essere trascritto solo se lo status acquisito all’estero per mezzo di esso è idoneo a produrre effetti giuridici anche nel nostro ordinamento, sicché la trascrizione del matrimonio mira appunto a dare pubblicità dell’esistenza di tale status e degli effetti ivi connessi.
Va premesso che la garanzia della “cross-border continuity” degli status acquisiti all’estero è ormai esplicitamente connessa alla tutela dei diritti umani fondamentali a seguito delle note sentenze Wagner e Negrepontis della Corte europea dei diritti dell’uomo. Da tali decisioni si ricava il principio per cui il mancato riconoscimento di tali status costituisce una violazione del diritto alla vita familiare quando lo status corrisponde a un legame familiare effettivamente esistente nella realtà sociale. D’altra parte, richiami analoghi alla prevalenza di una realtà sociale consolidata si ritrovano – sia pure limitatamente ai rapporti tra Stati membri dell’Unione europea – nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione relativa al diritto al nome. Rispetto al raggiungimento di un simile obiettivo le norme di diritto internazionale privato possono essere costrette a modellarsi nella misura in cui risultino inidonee ad assicurare la continuità dello status nello spazio.
Ora, l’astratta applicabilità di un simile principio anche alle unioni omosessuali non sembra in discussione. Da un lato, esse sono considerate, sul piano costituzionale interno, una delle “formazioni sociali” all’interno delle quali lo Stato garantisce il godimento dei diritti inviolabili, come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sent. n. 138/2010; dall’altro, ad esse va assicurata la garanzia propria delle relazioni entro cui si svolge la vita familiare, come ritenuto a più riprese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v. sentenze Schalk e Kopf e Vallianatos). Su queste premesse – se alla legislazione nazionale è rimesso un ampio margine di discrezionalità in ordine alle modalità di esercizio di tali diritti – non sembra sostenibile la posizione espressa dalla Corte di cassazione secondo cui l’acquisto di uno status corrispondente a tale relazione familiare all’estero rimane improduttivo di effetti giuridici per l’ordinamento italiano.
Tuttavia, dalla necessità di tener conto delle esigenze di tutela dei diritti umani fondamentali non discende de plano un obbligo assoluto di riconoscimento (né, tanto meno, la diretta efficacia nel nostro ordinamento – su questo punto v. le considerazioni svolte dalla Commission Internationale de l’État Civil in risposta al Libro Verde della Commissione europea che ha preceduto la proposta di regolamento sulla circolazione degli atti pubblici) delle situazioni giuridiche costituite all’estero, residuando comunque, sulla base dello stesso art. 8 della CEDU, un margine di apprezzamento in capo allo Stato, nel quale può evidentemente giocare un ruolo anche il divieto dell’abuso del diritto e della frode alla legge (dovendo la situazione risultare “duly acquired” nello Stato di origine). Pertanto, la garanzia della cross-border continuity degli status soggettivi (concernente non solo le unioni omosessuali costituite dall’estero, ma altri fenomeni al momento non disciplinati espressamente, come la maternità surrogata) presuppone comunque una valutazione dell’ordinamento italiano sulla loro riconoscibilità e sulla concreta possibilità di attribuire loro effetti giuridici, non potendo queste derivare dalla mera attitudine di quegli stessi status a produrre effetti nell’ordinamento di origine, come sembra ritenere il Tribunale di Grosseto.
Più in generale la motivazione del provvedimento appare insufficientemente articolata per soddisfare lo standard di controllo sopra descritto. Infatti, essa, pur superando il paradosso della sent. n. 4184/12 della Corte di cassazione di ritenere un negozio giuridico esistente e valido e, benché non contrario all’ordine pubblico, incapace di produrre effetti nel nostro ordinamento, non aiuta a porre rimedio all’inidoneità dell’attuale quadro normativo italiano rispetto agli obblighi connessi alla tutela dei diritti fondamentali in subiecta materia.
In proposito, non pare che la rigidità del criterio di collegamento della nazionalità previsto dal citato art. 27 (ma v. mutatis mutandis anche l’art. 24 della legge n. 218/1995 in materia di diritti della personalità) possa coniugarsi con la necessità di tener conto dello status acquisito all’estero quale realtà sociale non più (o non soltanto) destinata a dispiegarsi nel territorio dello Stato nazionale del soggetto e con la possibilità di esercitare un controllo sulla riconoscibilità di tale situazione soggettiva secondo la tecnica del margine di apprezzamento. In tal senso, per sovvenire alle esigenze imposte dalla garanzia dell’art. 8 della CEDU, potrebbe essere valutata la possibilità di prevedere una norma di conflitto che richiami, in tema di validità sostanziale del matrimonio (quanto meno per quanto riguarda gli impedimenti bilaterali), la legge dello Stato di celebrazione, in quanto legge (indirettamente) scelta dalle parti.
L’applicazione di detta legge resterebbe comunque subordinata a limiti di carattere generale (come l’ordine pubblico o il divieto di frode alla legge, comunque non ravvisabile nella sola scelta di costituire un determinato status all’estero). D’altra parte, un intervento del legislatore in questa materia – ormai inevitabile – potrebbe anche portare con sé l’imposizione di limiti specifici al riconoscimento delle unioni omosessuali costituite all’estero, idonei a garantirne la compatibilità con un determinato quadro normativo utilizzando meccanismi di adapted (o downgrade) recognition di tali unioni, analoghi a quelli già previsti in taluni ordinamenti europei, come quello tedesco o quello irlandese.
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