Crimea: le ragioni del torto (russo) e il torto delle ragioni (occidentali)
Scrivere della secessione della Crimea è difficile per chi non è incline a esercizi di ipocrisia. C’è innanzitutto, ma non solo, l’oggettiva complessità della quaestio iuris, che abbraccia, tra l’altro, la disciplina dell’uso della forza, il regime giuridico dell’occupazione militare, la tutela delle minoranze, l’attribuzione della cittadinanza da parte di uno Stato terzo, l’ambito di applicazione del principio di autodeterminazione, la tipologia delle sanzioni irrogate, il ricorso a misure di nazionalizzazione, dunque un certo numero di «quadri giuridici» dai contenuti incerti o controversi.
Il general intellect internazionalistico si è già soffermato su molte di tali questioni, invadendo la blogosfera (questo sito aiuta a orientarsi nell’intrico degli interventi in lingua inglese) con la stessa rapidità con cui la Russia di Putin, senza spargimento di sangue, ha soffiato un’intera penisola all’Ucraina. Dalla vicenda alcuni hanno ricavato l’impressione di un diritto internazionale irrimediabilmente impotente di fronte a smottamenti geopolitici di una certa portata (si veda il sarcastico commento di Posner e le disomogenee repliche di Spiro, Ku e Borgen).
Non può tuttavia sfuggire che gli stessi protagonisti della vicenda – la Russia e il «blocco occidentale» suo avversario – non si sono risparmiati fendenti in punta di diritto internazionale. Europa e Stati Uniti d’America, in particolare, avvertono che, questa volta, il diritto internazionale è un potenziale alleato, invece di un incomodo da scansare per soddisfare superiori esigenze morali o strategiche, com’è stato in un passato recente (si pensi alla guerra per il Kosovo) o non ancora trascorso (l’interminabile lotta al terrorismo). Lo si invoca perciò con enfasi, nelle sedi diplomatiche come nei «nostri» forum accademici on-line. Il risultato è, talvolta, involontariamente umoristico. Vi è chi, ad esempio, alla denuncia della flagrante violazione russa del divieto di ricorrere alla forza armata unisce il consiglio, rivolto al governo americano, di non «interiorizzare» interpretazioni troppo rigide di quel divieto, pena subire uno svantaggio strategico – come se ci fosse bisogno di questi consigli, considerata la prassi statunitense degli ultimi quindici anni! E c’è persino chi invoca crucifige internazionalpenalistici contro Putin e i suoi complici, quando è noto che, in campo occidentale, formidabili avversari della giustizia penale internazionale guardano il reato di aggressione perlomeno con sospetto, come dimostra l’estenuante negoziato provvisoriamente conclusosi a Kampala nel giugno del 2010 (per un approfondimento v. qui).
Più sofisticata è la posizione di chi ritiene che il linguaggio del diritto internazionale «can provide a vocabulary by which states and other actors may frame their arguments in an attempt to persuade other international actors» e che la Russia è venuta a trovarsi in una posizione scomoda proprio perché «[b]argaining in the shadow of international law may make it more difficult to maintain positions that are clearly against the consensus of the international community». La Russia sembra in effetti meno interessata dei suoi avversari al giudizio dell’opinione pubblica internazionale, mentre si mostra premurosa con quella «interna», soprattutto della Crimea, cui promette, tra varie altre cose, consistenti aumenti delle esigue pensioni minime ucraine. Trattasi di misure che, seppur lontane da un «Piano Marshall», appaiono molto più allettanti dell’austera condizionalità che presumibilmente scandirà la progressiva inclusione dell’Ucraina nella nostra sfera geoeconomica. Non pare, insomma, che gli Stati occidentali – l’Unione europea in primo luogo – abbiano preparato nel modo migliore una «guerra» che sembrano aver perso senza combattere. Non solo. Per le élites occidentali l’opinione pubblica internazionale non è più, come nell’Ottocento, il «tribunale del mondo», quanto piuttosto una massa di «consumatori politici» da blandire con messaggi ingannevoli, che, nel caso che ci riguarda, sono appunto mediati da un uso disinvolto e «spettacolarizzato» del linguaggio del diritto internazionale.
Niente paura: non ci accingiamo a formulare un improbabile plaidoyer di Putin. Chi potrebbe infatti negare che i comportamenti sinora adottati dalla Russia costituiscano gravi illeciti?
È vero che le forze militari straniere o comunque non controllate dal governo ucraino, presenti sul territorio della Crimea sin dai primi giorni di marzo, non esibivano segni distintivi mentre si adoperavano per acquisire il controllo del territorio. Ma è altrettanto vero che le targhe dei loro mezzi erano russe; che, nel momento in cui cominciava a prospettarsi l’ipotesi della secessione, è accertata la presenza di circa 20.000 militari russi in Crimea; che, in un contesto del genere, segnato da una richiesta d’aiuto militare dell’autoproclamato Governo autonomo di Crimea, richiesta cui il parlamento russo ha prontamente aderito, il richiamo al Trattato del 21 aprile 2010 (se ne veda il testo qui), quale base giuridica della presenza militare russa, risulta quantomeno fuorviante, anche a non voler ritenere estinto il patto, senza dubbio di carattere strategico-politico, in conseguenza dell’operare della clausola rebus sic stantibus; che, infine, nei giorni antecedenti la celebrazione del referendum del 16 marzo, imponenti manovre militari russe si sono svolte in prossimità del confine orientale ucraino.
È insomma difficile smentire, non solo la violazione dell’integrità territoriale ucraina da parte della Russia, violazione che secondo alcuni integra gli estremi dell’aggressione (si noti però che i partecipanti alle riunioni del Consiglio di Sicurezza, con l’eccezione di Stati Uniti, Ucraina, Lituania, Francia e, forse, Regno Unito, si sono espressi con una certa cautela al riguardo: cfr. i verbali delle sedute del 1°, del 13 e del 15 marzo), ma anche il fatto che, almeno dall’inizio di marzo, la Crimea si è trovata sotto il completo controllo russo, considerate le circostanze appena ricordate. Forse non è fuori luogo evocare la figura del «governo fantoccio» e affermare che la penisola sia divenuta teatro di un’occupazione bellica contraria al diritto internazionale, vista la piega che gli eventi hanno preso. In questa luce, sembra evidente che il referendum svoltosi domenica scorsa – concernente, si badi bene, la questione dell’adesione della Crimea alla Federazione russa in alternativa al mantenimento dell’autonomia sotto la sovranità dell’Ucraina – è da considerarsi come un atto preordinato a consolidare lo status quo e, proprio per questo, come un comportamento internazionalmente illecito, non in sé e per sé, ma in quanto contrario all’obbligo generale di non modificare lo statuto giuridico del territorio occupato (nel senso dell’illegittimità internazionale del referendum, v., da ultimo, la dichiarazione congiunta di Van Rompuy e Barroso, nonché il comunicato del portavoce del Presidente degli Stati Uniti e la dichiarazione del Ministro degli esteri italiano, tutti del 16 marzo scorso).
D’altra parte, anche se si volesse respingere una simile ricostruzione, ritenendo, per esempio, che il livello di controllo da parte russa non sia stato tale da giustificarla, il referendum celebrato domenica scorsa potrebbe pur sempre considerarsi quale elemento costitutivo – in sé lecito – di un fatto illecito complesso, nel senso dell’art. 15 degli Articoli sulla responsabilità degli Stati. Basti pensare che l’odierno realizzarsi dell’incorporazione della Crimea appare come il risultato conclusivo, senz’altro illecito, dell’insieme dei comportamenti – leciti e illeciti (cfr. par. 9 del commento all’art. 15) – sin qui tenuti o istigati dalla Russia (v., in questo senso, Weckel).
A questo proposito, è bene ricordare che le stesse modalità di svolgimento del referendum sul destino della Crimea (v. il recentissimo parere della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa), risultano alquanto dubbie nella prospettiva del diritto internazionale dei diritti umani. Basti pensare a circostanze quali il respingimento degli osservatori OSCE, le intimidazioni subite da molti giornalisti, l’oscuramento delle reti televisive ucraine, la forte presenza militare nelle strade, il blocco delle vie di accesso alla (e di deflusso dalla) Crimea (v. qui per una rassegna stampa). Ebbene, tali circostanze, se confermate, sembrano destinate a sollevare problemi, soprattutto in relazione al principio generale dell’effettiva libertà dell’esercizio del diritto di voto, che si ricava sia dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (v., ad esempio, Russian Conservative Party of Entrepreneurs and Others v. Russia, par. 73, ove statuizioni chiaramente estensibili a un referendum), sia dalla prassi del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (v. osservazione generale n. 25 del 27 agosto 1996, paragrafi 19-20, ove esplicito riferimento ai «referenda»).
Non vale invece la pena soffermarsi sui molteplici argomenti accampati da Putin per giustificare l’intervento – dagli inviti del governo crimeano e del deposto presidente ucraino Yanukovitch, all’esigenza di proteggere l’incolumità e gli interessi dei russofoni residenti nell’Ucraina orientale, fino alla realizzazione di un supposto diritto all’autodeterminazione della Crimea – tutti tendenzialmente privi di un sicuro (o anche malsicuro) fondamento nel diritto internazionale vigente. Né è il caso di mettersi a discettare sull’esatta qualificazione giuridica – fu aggressione? – della prima fase dell’intervento russo. Non è così che potremmo placare il senso di insoddisfazione che a questo punto ci assale e che non dipende dalla prevedibilissima incapacità del diritto internazionale di arginare la politica di potenza, quanto piuttosto dalla fatuità del discorso giuridico dei soggetti che, trovatisi quasi per caso dalla parte della ragione, hanno provato a organizzare una reazione al sopruso della Russia.
Ci sembra dunque del tutto naturale, una volta illustrate le ragioni del torto russo, considerare anche il torto delle ragioni occidentali.
Cominciano con l’osservare che, mentre fioccano le dichiarazioni di illegittimità del referendum celebratosi in Crimea domenica scorsa, le cancellerie (e i mass media) occidentali tacciono sulla dichiarazione di indipendenza della Repubblica autonoma di Crimea e Sebastopoli che, pronunciata cinque giorni prima del referendum e ad esso strettamente connessa (per un approfondimento v. qui), evoca lo spettro di un’altra e più celebre dichiarazione, quella del Kosovo, che i Paesi occidentali difesero a spada tratta. Il preambolo della prima dichiarazione, peraltro, menziona non solo il «precedente» del Kosovo ma anche il parere consultivo con cui la Corte internazionale di giustizia, chiamata a pronunciarsi sulla dichiarazione kosovara, certificò che l’ordinamento internazionale in linea generale non osta all’adozione di una dichiarazione di indipendenza. Tra le due dichiarazioni (e i rispettivi contesti storico-politici) sussistono sia analogie sia differenze. Queste, forse, sono più numerose di quelle; eppure, contrariamente a ciò che di solito si ritiene, le differenze sono perlopiù favorevoli alla posizione russa.
Una prima analogia consiste nel fatto che entrambe le dichiarazioni sono state votate a larghissima maggioranza da assemblee elettive disertate dai rappresentanti delle minoranze contrarie all’indipendenza: il Consiglio supremo di Crimea, che conta 100 deputati, si è espresso con il voto favorevole di 78 membri sugli 81 presenti; l’Assemblea kosovara approvò l’atto all’unanimità ma senza il concorso di 11 parlamentari su 120, tra cui i 10 rappresentanti della minoranza serba (per un approfondimento v. qui). Si sostiene che l’autenticità delle aspirazioni indipendentiste della Crimea, a differenza di quello del Kosovo, sarebbe inficiata dalla presenza delle forze armate di uno Stato straniero. Anche qui, tuttavia, l’analogia prevale sulla differenza: l’indipendenza del Kosovo fu proclamata quando – e certamente anche in virtù del fatto che – la sicurezza interna ed esterna dell’ex-provincia serba era assicurata da un’organizzazione militare straniera, la NATO, la cui presenza fu sì autorizzata dal Consiglio di Sicurezza, non prima, però, che alcuni Stati appartenenti alla stessa organizzazione portassero a termine una lunga e mortifera campagna di bombardamenti aerei, dai più ritenuta illecita. Se, inoltre, l’ingerenza russa è all’origine dell’iniziativa dell’assemblea crimeana, l’intervento degli occidentali (Stati Uniti in primis) nel processo costituente dell’odierno Kosovo è stato altrettanto intrusivo (ampie notizie, ad es., qui).
Sulle differenze si può osservare quanto segue.
La dichiarazione di indipendenza del Kosovo non è stata sottoposta alla verifica di una consultazione popolare. Quella della Crimea, al contrario, prevedeva che la definitiva proclamazione di uno «Stato sovrano e indipendente» sarebbe avvenuta solo nel momento in cui la popolazione si fosse espressa per l’incorporazione alla Russia, impegnando le autorità crimeane a proporre al potente vicino la stipula di un trattato (si vedano i paragrafi 1 e 3 della dichiarazione di indipendenza). Naturalmente, tutto ciò si riduce a una mera finzione, se si ritiene che le neo-proclamata Repubblica di Crimea resti, anche dopo il referendum, uno Stato fantoccio. Comunque sia, l’atto fondativo di tale repubblica, da un punto di vista esclusivamente semantico, appartiene al genere letterario della dichiarazioni di indipendenza. Quella del Kosovo, invece, lascia ben poco spazio a sospensioni dell’incredulità, poiché paradossalmente si chiude con un atto di sottomissione ad alcuni Stati stranieri, i quali avrebbero formalmente detenuto il potere supremo in Kosovo sino allo scioglimento, nell’autunno del 2012, dell’International Civilian Office (il cui sito Internet, che è stato nel frattempo rilevato da un’agenzia immobiliare americana, resta comunque accessibile grazie alla «macchina del tempo» di Internet Archive). Pertanto, ammesso e non concesso che il principio di autodeterminazione potesse trovare applicazione in entrambi i casi, solo in quello del Kosovo si sarebbe potuta escludere in partenza – e, per così dire, già dal punto di vista formale – l’idoneità della dichiarazione a realizzare il principio o a conformarvisi (una dichiarazione di sottomissione allo straniero è la negazione stessa dell’autodeterminazione)!
Si può comunque concordare con chi ritiene che il caso della Crimea non cade in nessuna delle fattispecie in cui si articola il principio di autodeterminazione. Per il Kosovo, invece, una parte della dottrina e alcuni Stati (non molti: si veda qui per un approfondimento) parlano di una secessione che il diritto internazionale avrebbe autorizzato per rimediare a una situazione di grave e generalizzata violazione dei diritti fondamentali della popolazione locale, circostanza che non si sarebbe verificata in Crimea. Anche su questo versante, tuttavia, il tabellino della Crimea segna almeno un punto che non figura in quello del Kosovo: mentre l’oppressione della popolazione di etnia albanese era cessata da anni al momento della dichiarazione di indipendenza (erano semmai i Serbi, divenuti minoranza sotto il governo provvisorio dell’UNMIK, a subire episodi di violenza revanscista), tanto che si discusse della possibilità di invocare la secessione-rimedio anche «a freddo», gli atti compiuti dal governo ucraino scaturito dal putsch, in particolare l’immediata decisione di privare il russo dello status di lingua ufficiale, uniti all’inquietante presenza di elementi ultranazionalisti, e persino neonazisti, nella compagine ministeriale (causa di silenziosi imbarazzi nelle capitali europee) e al sospetto sempre più forte di un loro coinvolgimento nel massacro di Piazza Maidan, che sarebbe stato strumentalmente attribuito al governo deposto, non lasciano sperare nulla di buono – per usare un eufemismo – circa la capacità del nuovo governo di promuovere una convivenza pacifica tra le diverse nazionalità ucraine (cfr., in questo senso, Mamlyuk). Di nuovo, niente paura: non intendiamo sostenere che con ciò si possa giustificare l’intervento russo; ma che su tali circostanze si debba riflettere, certamente sì!
Un’altra considerazione da non omettere, anche per le conseguenze che se ne possono trarre ai fini di una valutazione critica delle reazioni degli Stati occidentali (di cui ci occuperemo tra poco), concerne il valore perlomeno politico del referendum celebrato in Crimea. Se è possibile affermare che il referendum è stato indetto da un governo fantoccio, e se è vero che le sue stesse modalità di svolgimento presentano aspetti poco convincenti, liquidare il risultato della consultazione – peraltro svoltasi in modo pacifico – come se questa non fosse neppure avvenuta, appare senz’altro discutibile (cfr. le già citate reazioni dell’Unione europea e degli Stati Uniti).
Ha ragione chi sostiene che le violazioni degli Stati occidentali non giustificano quelle commesse dalla Russia nella crisi in corso; il loro ricordo, tuttavia, non può non creare un’impressione di incoerenza e rende flebile anche la più vibrante delle proteste contro l’ingerenza russa. Il vittimismo, l’esagerazione del torto altrui, gli eccessi retorici e, soprattutto, la palese (e in parte conseguente) incapacità di convincere e di incidere sulla situazione, connotano non solo la qualificazione giuridica dei comportamenti tenuti o istigati dalla Russia ma anche le reazioni agli illeciti da questa commessi, ossia l’esitante passage à l’acte del blocco occidentale.
In quanto vittima diretta dell’illecito, l’Ucraina ha scelto la via della risoluzione pacifica, citando la Russia, il 13 marzo, davanti alla Corte europea dei diritto dell’uomo. Il giorno stesso, a titolo cautelare, un giudice della Corte ha ingiunto a entrambe le parti di astenersi da comportamenti, in particolare azioni militari, che possano mettere a repentaglio la vita o l’incolumità della popolazione ucraina (per un approfondimenti, v. qui). Un provvedimento sacrosanto che, tuttavia, appare distonico rispetto alla vicenda in corso, posto che l’Ucraina non può verosimilmente permettersi di ingaggiare scontri armati, mentre la Russia sembra in grado di conseguire i suoi scopi in modo (quasi) incruento. Il conflitto armato, infatti, ha prodotto sinora una sola vittima. Il 18 marzo, a Simferopoli, un soldato ucraino è caduto mentre difendeva una base militare rimasta sotto il controllo di Kiev. La stridula condanna del «crimine di guerra» pronunciata dal primo ministro ucraino Yatseniuk non ha fortunatamente ricevuto eco presso le cancellerie occidentali, privando la Russia di un pretesto per evocare Guantanamo, Abu Ghraib, la pratica delle extraordinary renditions, le innumerevoli vittime civili dei raid aerei in Afghanistan e la scia di sangue dei signature strikes. La reazione orchestrata dai Paesi occidentali nell’ambito del Consiglio di Sicurezza non è stata altrettanto «sobria».
Gli Stati Uniti, sostenuti da altri 41 Stati (tutti tradizionali alleati), hanno messo sul tavolo un progetto di risoluzione che, qualora adottato, avrebbe definito «privo di qualsiasi validità» il referendum che si sarebbe di lì a poco svolto in Crimea e, oltre a ciò, avrebbe richiamato gli Stati al dovere di non riconoscere eventuali mutamenti dello status giuridico della penisola finalizzati ad attuare il risultato della consultazione. Il progetto, che si è ovviamente infranto sul veto russo, ha comunque incassato 13 voti favorevoli e l’astensione della Cina. Un’astensione motivata dal fatto che «il principio dell’integrità territoriale è uno dei cardini della politica estera cinese» ma che, stando al verbale della seduta, equivale a un mezzo veto: «Drafting a resolution at this juncture will only lead to confrontation and further complicate the situation. It is not in line with the common interest of both the people of Ukraine and the international community». La Cina ha inoltre denunciato le interferenze (anche) occidentali che, a suo avviso, hanno contribuito a inasprire la crisi, deplorando altresì la mancata attuazione dell’accordo del 21 febbraio 2014 che, concluso tra il governo di Yanukovitch e i rappresentanti dell’opposizione e «garantito» da Francia, Germania e Polonia (a nome dell’Unione europea), nonché dalla Russia (se ne veda il testo qui), sembrava poter condurre a una soluzione negoziata, nonostante l’ombra dei misteriosi spari piovuti sulla folla il giorno precedente. L’Argentina ha assunto una posizione simile, anche se in termini solo allusivi e conciliabili con un assenso molto dubbioso. Infine, il Ruanda, pur votando con riluttanza a favore della risoluzione, ha espressamente denunciato il «cinismo» con cui nei «corridoi» del Palazzo di Vetro si è deciso di inscenare un rito utile a rimarcare l’isolamento di una parte, la Russia, ma dannoso ai fini della ricerca di una soluzione pacifica.
Pare in effetti che i Membri proponenti abbiano concordato – a beneficio della stampa – l’impiego di un medesimo dispositivo retorico, consistente nel delegittimare il ricorso della Russia al diritto di veto. Diritto che – così si è arguito nel corso della seduta del 15 marzo – può essere contrapposto a una risoluzione ma non alla «verità» (per gli Stati Uniti) o ai grandi principi scolpiti nella Carta delle Nazioni Unite che la risoluzione si sarebbe limitata a rispecchiare (per Australia, Cile, Francia, Lituana e Lussemburgo). «Les titres de la presse peuvent êtrе simples: la Russie vient d’opposer son veto à la Charte des Nations Unies», ha sintomaticamente affermato il rappresentante francese, frase di sicuro effetto ma stridente, dato che il diritto di veto è previsto proprio dalla Carta – costituendone anzi l’architrave – e che la Francia non ha esitato ad avvalersene almeno in una situazione analoga.
Si può quindi cogliere un’involontaria nota umoristica nella replica che la Francia ha opposto alla riesumazione del caso dell’isola di Mayotte da parte della Russia. Nel 1976, al momento dell’accesso delle Comore all’indipendenza, la Francia sponsorizzò un referendum da cui emerse la volontà degli abitanti di Mayotte di mantenere il vincolo con la madrepatria, pregiudicando così l’integrità territoriale dell’ex-colonia, a difesa della quale si erse, tra gli altri, l’Unione Sovietica. Da questa circostanza la Francia deduce che «la Russie se trompe dans un des deux cas, en 1976 ou en 2014, elle doit choisir», senza però accorgersi di trovarsi, ora, nella medesima situazione: nemmeno la Francia può pretendere di aver ragione sia sulla Crimea sia su Mayotte. Peraltro, nel 1976, la Francia «agguantò» la ragione proprio come oggi fa la Russia, ossia grazie al veto con cui impedì l’adozione di un progetto di risoluzione che, presentato da Benin, Guyana, Libia, Panama e Tanzania, le avrebbe ingiunto di rinunciare a organizzare il referendum a Mayotte (Gran Bretagna e Stati Uniti si astennero; l’Assemblea Generale poco dopo condannò la persistente presenza francese sul territorio delle Comore).
Esaurita la possibilità di reagire dall’interno del sistema delle Nazioni Unite, gli Stati si concentrano ora sull’adozione di misure più o meno concertate. Il 6 marzo, Stati Uniti e Unione Europea hanno concordato una reazione sanzionatoria per stadi, comprendente misure di natura ed intensità variabili. Tralasciando le misure meramente lecite, oltre che di dubbia efficacia considerata la posta in gioco (l’interruzione dei pourparler tra Russia e Unione europea in tema di cooperazione economica, ad esempio, o la prospettiva di tenere un vertice G7 a Londra in luogo del programmato G8 a Sochi), vale la pena di soffermarsi sulle c.d. sanzioni individuali, in particolare su quelle che possono, almeno in linea teorica, configurarsi come contromisure.
La minaccia delle sanzioni si è concretizzata in concomitanza con il referendum. Il 16 marzo, Stati Uniti ed Unione europea hanno congelato le risorse finanziarie e vietato l’ingresso nei rispettivi territori di circa 20-30 individui di nazionalità russa o ucraina ritenuti responsabili della crisi che ha condotto al distacco della Crimea dall’Ucraina. Il 19 marzo, il Ministro degli esteri australiano ha annunciato l’intenzione di applicare analoghe sanzioni a dodici individui la cui identità è mantenuta riservata per evitare fughe di capitali; è noto, tuttavia, che tra i soggetti sanzionati vi sono anche cittadini ucraini. Alla campagna sanzionatoria parteciperanno anche altri stati e si prevede una graduale escalation della pressione esercitata sulla Russia (pare che l’Unione europea abbia già stilato una «lista nera» comprendente 100 nominativi).
Le peculiari caratteristiche di tali sanzioni suscitano perplessità sia in rapporto alla loro legittimità, sia riguardo alla loro efficacia (due profili che, come diremo, sono in parte connessi).
Vi è innanzitutto la questione della legittimazione ad adottare contromisure. Gli autori delle sanzioni sembrano partire dal presupposto, non necessariamente scorretto (ma sin qui poco o punto argomentato), secondo cui non solo l’Ucraina, in quanto vittima diretta dell’illecito, bensì anche altri soggetti (statuali e non) sarebbero abilitati a reagire, come se la Russia avesse commesso una violazione grave di un obbligo erga omnes (per riferirsi d’emblée al parametro tratteggiato nell’art. 5 di una pertinente risoluzione dall’Institut de droit international). Una qualificazione del genere non è certo da escludere, senza dover per forza evocare il crimine internazionale per eccellenza, l’aggressione armata; tuttavia, considerate le incertezze che gravano sulla disciplina delle reazioni «collettive» all’illecito, di cui la clausola in bianco (art. 54) degli Articoli sulla responsabilità degli Stati resta l’emblema, dagli autori delle sanzioni ci si poteva forse attendere una giustificazione più circostanziata.
Un’ulteriore questione riguarda il bersaglio della sanzione. Finché, infatti, le «contromisure» incidono sulla situazione di soggetti di nazionalità russa, ad essere colpita è anche la Russia, traducendosi siffatte misure in una sospensione delle regole generali in materia di trattamento degli stranieri. Risulta però che alcuni individui sanzionati abbiano nazionalità ucraina, per cui, o costoro possiedono anche la cittadinanza russa (circostanza che però non sembra interessare gli autori delle sanzioni), o li si considera organi de facto della Russia (il che appare improbabile) o, infine, si è costretti a pensare che le sanzioni non vogliano colpire (anche) la Russia in quanto tale, secondo un classico schema di contrapposizione interstatale, bensì proprio e solo gli individui ritenuti in qualche modo responsabili dei gravi fatti accaduti in Crimea. Si tratterebbe di una metodologia sanzionatoria almeno in parte innovativa, dato che vi si ricorre al di fuori del sistema delle Nazioni Unite, che, com’è noto, ha già ampiamente sperimentato le cosiddette smart sanctions, non però – si badi bene – per reprimere illeciti accertati nel rispetto dei principi dello stato di diritto, bensì in quanto misure di polizia di durata indefinita e dai presupposti non sempre trasparenti. In tal caso, allora, non avrebbe alcun senso parlare di contromisure né, più in generale, di reazioni a un illecito. E in effetti, l’executive order statunitense, firmato da Obama il 6 marzo scorso, non menziona «illeciti» di alcun tipo, tanto meno internazionali, reagendo bensì ad una «unusual and extraordinary threat to the national security and foreign policy of the United States». Lo stesso vale, mutatis mutandis, per il regolamento europeo, il quale neppure sembra voler reagire a un illecito internazionale (cui rapidamente allude), mirando piuttosto a contrastare azioni individuali funzionalmente collegate alla compromissione o alla minaccia dell’integrità territoriale e dell’indipendenza dell’Ucraina.
Una terza questione riguarda, pertanto, la legittimità delle sanzioni rispetto al parametro dei diritti fondamentali. Il fatto che tali provvedimenti non godono della copertura del Consiglio di Sicurezza di certo non scoraggerà gli individui intenzionati a impugnarli di fronte ai tribunali nazionali, dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea e, in ultima analisi, dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Siffatte impugnazioni – è appena il caso di dirlo – non mancherebbero di dar luogo a dubbi di una certa consistenza, a partire dalla loro idoneità a incidere sulla reputazione dei soggetti colpiti (sul punto, v. da ultimo, Abdulbasit Abdulrahim c. Consiglio e Commissione dell’Unione europea, par. 70 ss.).
Infine, la dubbia efficacia delle sanzioni. Alcuni destinatari hanno tenuto a far sapere di non possedere beni sul territorio degli Stati autori delle sanzioni. Incluso nella «lista nera», il Vice-primo ministro russo Rogozin ha motteggiato il Presidente degli Stati Uniti via Twitter: «Comrade Obama, and what will you do with those who have neither accounts nor property abroad? Or didn’t you think of that?» (v. qui per la notizia). In ogni caso, è facile prevedere che il governo russo saprà adeguatamente «(ri)compensare» gli individui colpiti per il servizio reso alla patria. Sembra dunque che tali sanzioni, che ipocritamente non sfiorano il nemico pubblico numero uno, Vladimir Putin, siano solo un paravento dell’incapacità – o, peggio, di una mancanza di reale volontà politica – di sanzionare la Russia, e ciò a causa del vasto intreccio di interessi economici che avvince quest’ultima ai suoi stizziti ma impotenti avversari. Se poi si ritiene, seguendo l’impostazione della Commissione di diritto internazionale (cfr. art. 49 degli Articoli sulla responsabilità degli Stati), che una contromisura è lecita solo a patto che contribuisca al ripristino dell’ordine giuridico violato, potrebbe addirittura conseguirne che le sanzioni in questione siano da considerare… illecite! E difatti, esse, oltre che velleitarie, rischiano di apparire grottesche in rapporto all’entità dell’illecito cui intendono contrapporsi: la «conquista» della Crimea convalidata da un voto popolare quasi unanime (malgrado le circostanze di cui si è detto). E qualora non si possa nemmeno parlare di contromisure, come abbiamo ipotizzato, la palese inutilità delle reazione la renderebbe per di più… sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito e al livello di compressione dei diritti individuali che comporta.
Qui ci fermiamo. Non senza sottolineare, però, che quanto appena detto a proposito delle sanzioni ci riporta all’inizio di queste note, precisamente al punto in cui scrivevamo che l’opinione pubblica occidentale tende oggi, sempre più, ad essere trattata come una massa di «consumatori politici», da nutrire con messaggi spettacolari. Appartengono senza dubbio a questa tendenza le sanzioni fin qui adottate, delle quali è però arduo celare la… spettacolare inidoneità a perseguire (perlomeno per ora) gli scopi per cui, con studiata solennità, se n’è proclamata l’irrogazione.
C’è da presumere, naturalmente, che lo spettacolo continui, con «numeri» non facilmente prevedibili, data la complessità e la singolarità dello scenario che si è venuto a delineare. Tra i «numeri» cui abbiamo assistito sinora, potremmo citare, per esempio, la buffa sorte occorsa al principio di «legittimità democratica», lungamente accarezzato dalla dottrina internazionalistica occidentale, soprattutto nel corso degli anni ’90, e oggi invocato dalla Russia per denunciare le vicende assai poco chiare che hanno portato alla deposizione di Yanukovitch e al cambiamento di governo in Ucraina, in barba al già citato «accordo costituzionale» del 21 febbraio scorso. Quanto ai «numeri» che potranno sopraggiungere, siamo invece abbastanza certi che tra essi non troveranno facilmente spazio argomentazioni, necessariamente sofisticate, volte a conferire una qualche forma di legittimazione giuridica all’intervento russo: tanto per intenderci, argomentazioni comparabili, mutatis mutandis, a quelle che, all’epoca della campagna NATO contro la Jugoslavia, furono elaborate per procurare un qualche fondamento, anche solo «prospettivo», a quell’intervento.
8 Comments
Condivido buona parte del commento di De Sena e Gradoni. Mi sembra però che gli Autori omettano alcuni aspetti dell’invasione militare russa della Crimea che la distinguono chiaramente dal caso del Kossovo e che purtroppo fanno ricordare piuttosto l’annessione nazista dei Sudeti( con popolazione locale ferventemente annessionista, pur non certo perseguitata o discriminata nella Cecoslovacchia) e, nella modalità, dagli interventi sovietici in Ungheria e Cecoslovacchia, giustificati dall’URSS con la richiesta di aiuto fraterno da parte di dittatori cacciati a furor di popolo.
L’azione militare sovietica, con l’invasione di una parte del territorio di un paese limitrofo in tempo di pace senza nessuna provocazione da parte di quest’ultimo non ha mirato a sostenere l’indipendenza di questa parte del territorio (Crimea) e della sua popolo ma l’annessione dello stesso. Nel caso del Kossovo i paesi NATO non hanno invaso il Kossovo ne’ intendevano annetterlo, ma sostenerne l’indipendenza.
L’azione russa viola il principio primo della Dichiarazione delle Relazioni Amichevoli AG 2625/1970 che è centrale nell’assetto geopolitico e nel diritto internazionale contemporaneo, il divieto dell’uso della forza contro l’integrità territoriale di un altro Stato.
Sussiste anche il caso ( e non l’eccezione) del principio 5 della Dichiarazione secondo cui il diritto all’autodeterminazione non può “autorizzare o incoraggiare un’azione di qualsiasi genere che possa portare allo smembramento o minacciare totalmente o parzialmente l’integrità territoriale e l’unità politica di uno Stato sovrano e indipendente…che abbia …un governo che rappresenti nel suo insieme il popolo appartenente al territorio, senza distinzione di razza, fede e di colore”.
Diversamente che nel caso del Kossovo, con la popolazione perseguitata dalla Serbia di Milosevic, i russi di Crimea non mi pare non godessero in Ucraina dei diritti civili e politici, anzi la Crimea godeva di un’ampia autonomia.
Gli europei non vollero combattere per la Cecoslovacchia, dovettero combattere per Danzica e la Polonia.
Non vogliamo certo combattere per la Crimea; speriamo non ci tocchi dover combattere per i Paesi baltici.
Non so se sono incappato io in un errore, ma mi pare che la legge che avrebbe dovuto privare il russo dello status di lingua ufficiale sia stata approvata in un primo tempo dalla Verkhovna Rada di Kiev, ma alla fine non sia stata promulgata dal Presidente ad interim. Ho letto fonti giornalistiche contrastanti su questo punto e forse occorrerebbe fare chiarezza.
Corretto (v., ad es., http://en.itar-tass.com/world/721537). Com’è corretto affermare che c’è stata un’iniziativa del governo, peraltro prontamente “ratificata” dal parlamento (anche se a stretta maggioranza). La mancata promulgazione da parte del Presidente ucraino ad interim non toglie all’iniziativa la capacità di rispecchiare un atteggiamento non proprio mite nei confronti delle minoranze da parte del governo emerso dal putsch (e noi in questa chiave l’abbiamo menzionata).
Condivido molto dell’intervento di Pasquale e Lorenzo, ma in particolare questo passaggio: “Per le élites occidentali l’opinione pubblica internazionale non è più, come nell’Ottocento, il «tribunale del mondo», quanto piuttosto una massa di «consumatori politici» da blandire con messaggi ingannevoli, che, nel caso che ci riguarda, sono appunto mediati da un uso disinvolto e «spettacolarizzato» del linguaggio del diritto internazionale.”
In un momento di onestà intellettuale, il Primo ministro britannico David Cameron, nel dibattito parlamentare dell’agosto scorso, che lo ha condotto a una bruciante sconfitta politica sull’intervento in Siria, ha dovuto ammettere che “The well of public opinion has been well and truly poisoned by the Iraq episode”. Il pozzo è stato avvelenato non solo dalle armi di distruzioni di massa irachene, ma anche dall’intervento umanitario e dalla secessione kosovara e dall’intervento in Libia, che doveva proteggere i civili ai sensi della ris. 1973 e si è trasformato in un’operazione di “regime change”. L’assenza di un’opposizione da parte dell’opinione pubblica occidentale all’intervento russo, e il relativo disinteresse, ne sono la riprova. Sarà altrettanto arduo raccogliere adesioni ad una manifestazione di solidarietà al popolo ucraino (ahimè), quanto lo sarà trovare internazionalisti pronti a elaborare sofisticate giustificazioni giuridiche a sostegno dell’intervento russo…
mi pare che qui si dimentichi che la crimea russa da qualche centinaio di anni è stata diciamo così con un eufemismo “donata” all’ucraina da un(ritenuto dall’occidente) dittatore kruscev nel 1954. Per la verità sembra che la guerra fredda sia finita per tutti tranne per gli Usa che destabilizzano ogni dove per perseguire “gli interessi” americani l’Europa si accoda ed è incapace di sostenere una politica estera autonoma che eviti lo smembramento di stati e paesi dove le convivenze etniche e religiose sono per tradizione complesse: Abbiamo fallito con la Jugoslavia combinando un disastro dove era stato fatto un capolavoro e continuiamo adesso qui e altrove ma qui è in Europa dove grazie alla nostra stupidità e al nostro egoismo è stata riportata la guerra e sono state bombardate popolazioni inermi dai soliti noti.
Né le ombre di Kádár …
… né quelle di Novotný e Karmal, né lo spettro dei Sudeti, che Sacerdoti evoca nel suo commento, sono stati, per la verità, estranei alla stesura del nostro intervento. Quanto ai primi, abbiamo espressamente evocato la possibilità di inquadrare il governo della Repubblica autonoma di Crimea nella categoria dei governi fantoccio, malgrado il fatto che quest’ultimo, a differenza dei governi capeggiati dai signori appena ricordati, godesse di un largo appoggio popolare.
Quanto alla vicenda dei Sudeti – con la quale, in effetti, il nostro caso presenta punti di contatto – vero è che nel post non vi è alcun accenno esplicito. Ma l’evidente vis polemica da noi espressa nei confronti delle presenti “élites” occidentali (europee e statunitensi), che è un po’ il filo conduttore dell’intero discorso, vi è inevitabilmente connessa. E qui il pensiero corre alle ben note responsabilità dei vertici politici dei Paesi europei dell’epoca (Chamberlain, per esempio) riguardo a quella vicenda.
Nulla da eccepire sul richiamo al principio 5 della Dichiarazione sulle relazioni amichevoli (nel cui contesto, segnaliamo un significativo, e finanche… condivisibile, «lapsus» di Sacerdoti, che parla di intervento militare «sovietico», riferendosi all’azione russa odierna). Noi stessi, del resto, pur non citando la Dichiarazione, abbiamo espressamente escluso che il caso della Crimea sia riconducibile alle ipotesi previste dal principio di autodeterminazione.
Meno d’accordo siamo invece sulla rappresentazione che Sacerdoti sembra fornire dell’intervento in Jugoslavia per la questione del Kosovo. Se è vero, infatti, che quest’ultimo non dette luogo ad un’invasione, né fu preordinato all’annessione di quel territorio da parte degli Stati della NATO, ci sembra invece difficile concludere che il suo obbiettivo fosse quello di «sostenerne l’indipendenza». Si trattò piuttosto di un intervento armato a fini di umanità (giudicato senz’altro illecito, anche da chi ne ammetteva, in principio, la conformità al diritto internazionale generale), effettuato sulla scorta della situazione accertata in alcune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza nelle quali, com’è noto, si parlava di «imminente catastrofe umanitaria» (punto 2 della Risoluzione 1199 del 23 settembre 1998 e punto 11 della Risoluzione 1203 del 24 ottobre 1998, in cui ci si rivolgeva peraltro sia al governo jugoslavo, che alla leadership albanese). D’altra parte, che il destino del Kosovo non dovesse essere, perlomeno sulla carta, quello dell’acquisizione dell’indipendenza è confermato dal tenore della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, in cui si faceva espressamente salva l’integrità territoriale della Serbia (decimo «considerando» del preambolo; punto 5 dell’Annesso I, che riproduce lo statement del Presidente ad esito della riunione del G8 del 6 maggio 1999; punto 8 dell’Annesso II). Altro, naturalmente, è quello che si è poi verificato…
Ci sia consentito, infine, di indugiare ancora un istante sul parallelo con la questione dei Sudeti. Sacerdoti si augura, mestamente, che la riluttanza a combattere per la Crimea non ci conduca, prima o poi, a dover combattere per i Paesi baltici, così come, a fine anni ’30, la resistenza a combattere per i Sudeti condusse a combattere per Danzica. Enrico Milano, nel suo commento di ieri, parla di «pozzi avvelenati», a proposito dell’opinione pubblica occidentale, ipotizzando che la «tiepidezza» di quest’ultima a proposito della questione dell’Ucraina (dove peraltro, non dimentichiamolo, il «putsch» del 22 febbraio non ha ancora condotto ad elezioni), sia ricollegabile ai gravissimi errori occidentali, commessi in Iraq, Kosovo e Libia. Sulle magagne delle élites politiche occidentali non è il caso di insistere, se non per dire che oggi, in regime di divieto di uso della forza, chi pretende il rispetto di tale divieto necessita, forse più di allora, di presentarsi con le «carte in regola», se vuole essere ritenuto credibile.
Per quanto attiene poi alla «tiepidezza» dell’opinione pubblica, ci auguriamo di non dover concludere che, in aggiunta ai «pozzi» di cui sopra, un qualche rilievo sia da attribuirsi (più prosaicamente) alla poco… tiepida prospettiva di restare senza gas. Insomma, non vorremmo dover scoprire che siffatta prospettiva, non solo condizioni l’azione dei Governi (com’è chiaro), ma sia anche in grado di raffreddare i… bollenti spiriti della spesso celebrata società civile occidentale, suggerendo a quest’ultima di non correre alcun rischio per la Crimea (o per l’Ucraina). In questa malaugurata (ma non del tutto peregrina) ipotesi, anche Tallin e Riga ben poco avrebbero da sperare…
Né le ombre di Kádár …
… né quelle di Novotný e Karmal, né lo spettro dei Sudeti, che Sacerdoti evoca nel suo commento, sono stati, per la verità, estranei alla stesura del nostro intervento. Quanto ai primi, abbiamo espressamente evocato la possibilità di inquadrare il governo della Repubblica autonoma di Crimea nella categoria dei governi fantoccio, malgrado il fatto che quest’ultimo, a differenza dei governi capeggiati dai signori appena ricordati, godesse di un largo appoggio popolare.
Quanto alla vicenda dei Sudeti – con la quale, in effetti, il nostro caso presenta punti di contatto – vero è che nel post non vi è alcun accenno esplicito. Ma l’evidente vis polemica da noi espressa nei confronti delle presenti “élites” occidentali (europee e statunitensi), che è un po’ il filo conduttore dell’intero discorso, vi è inevitabilmente connessa. E qui il pensiero corre alle ben note responsabilità dei vertici politici dei Paesi europei dell’epoca (Chamberlain, per esempio) riguardo a quella vicenda.
Nulla da eccepire sul richiamo al principio 5 della Dichiarazione sulle relazioni amichevoli (nel cui contesto, segnaliamo un significativo, e finanche… condivisibile, «lapsus» di Sacerdoti, che parla di intervento militare «sovietico», riferendosi all’azione russa odierna). Noi stessi, del resto, pur non citando la Dichiarazione, abbiamo espressamente escluso che il caso della Crimea sia riconducibile alle ipotesi previste dal principio di autodeterminazione.
Meno d’accordo siamo invece sulla rappresentazione che Sacerdoti sembra fornire dell’intervento in Jugoslavia per la questione del Kosovo. Se è vero, infatti, che quest’ultimo non dette luogo ad un’invasione, né fu preordinato all’annessione di quel territorio da parte degli Stati della NATO, ci sembra invece difficile concludere che il suo obbiettivo fosse quello di «sostenerne l’indipendenza». Si trattò piuttosto di un intervento armato a fini di umanità (giudicato senz’altro illecito, anche da chi ne ammetteva, in principio, la conformità al diritto internazionale generale), effettuato sulla scorta della situazione accertata in alcune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza nelle quali, com’è noto, si parlava di «imminente catastrofe umanitaria» (punto 2 della Risoluzione 1199 del 23 settembre 1998 e punto 11 della Risoluzione 1203 del 24 ottobre 1998, in cui ci si rivolgeva peraltro sia al governo jugoslavo, che alla leadership albanese). D’altra parte, che il destino del Kosovo non dovesse essere, perlomeno sulla carta, quello dell’acquisizione dell’indipendenza è confermato dal tenore della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, in cui si faceva espressamente salva l’integrità territoriale della Serbia (decimo «considerando» del preambolo; punto 5 dell’Annesso I, che riproduce lo statement del Presidente ad esito della riunione del G8 del 6 maggio 1999; punto 8 dell’Annesso II). Altro, naturalmente, è quello che si è poi verificato…
Ci sia consentito, infine, di indugiare ancora un istante sul parallelo con la questione dei Sudeti. Sacerdoti si augura, mestamente, che la riluttanza a combattere per la Crimea non ci conduca, prima o poi, a dover combattere per i Paesi baltici, così come, a fine anni ’30, la resistenza a combattere per i Sudeti condusse a combattere per Danzica. Enrico Milano, nel suo commento di ieri, parla di «pozzi avvelenati», a proposito dell’opinione pubblica occidentale, ipotizzando che la «tiepidezza» di quest’ultima a proposito della questione dell’Ucraina (dove peraltro, non dimentichiamolo, il «putsch» del 22 febbraio non ha ancora condotto ad elezioni), sia ricollegabile ai gravissimi errori occidentali, commessi in Iraq, Kosovo e Libia. Sulle magagne delle élites politiche occidentali non è il caso di insistere, se non per dire che oggi, in regime di divieto di uso della forza, chi pretende il rispetto di tale divieto necessita, forse più di allora, di presentarsi con le «carte in regola», se vuole essere ritenuto credibile.
Per quanto attiene poi alla «tiepidezza» dell’opinione pubblica, ci auguriamo di non dover concludere che, in aggiunta ai «pozzi» di cui sopra, un qualche rilievo sia da attribuirsi (più prosaicamente) alla poco… tiepida prospettiva di restare senza gas. Insomma, non vorremmo dover scoprire che siffatta prospettiva, non solo condizioni l’azione dei Governi (com’è chiaro), ma sia anche in grado di raffreddare i… bollenti spiriti della spesso celebrata società civile occidentale, suggerendo a quest’ultima di non correre alcun rischio per la Crimea (o per l’Ucraina). In questa malaugurata (ma non del tutto peregrina) ipotesi, anche Tallin e Riga ben poco avrebbero da sperare…
vorrei poi ricordare a sacerdoti che qui mi pare che i neo nazisti siano nel governo ucraino che giustamente nell’articolo si dice nato da vicende poco chiare con la destituzione di un governo “votato”. Direi che stiamo assistendo con indifferenza a diverse vicende dall’Ungheria alla Lettonia di rigurgiti neo nazisti e ragioniamo sull’Ucraina con il “tifo” di tipo calcistico. Il popolo poi ha decretato in questi giorni la vittoria dei neo nazisti di Le pen in francia più per la sua assenza che per il suo consenso e questo vuol dire che le classi dirigenti o presunte tali non danno segnali confortanti.