AAA cittadinanza dell’Unione vendesi
La cittadinanza europea: un Giano bifronte innanzi alla crisi
Uno degli istituti di diritto UE sui quali l’attuale crisi economico-finanziaria ha impattato più pesantemente è senza dubbio rappresentato dalla cittadinanza europea. Complice anche lo scadere del periodo transitorio previsto per la libera circolazione dei lavoratori rumeni e bulgari (esauritosi il 31 dicembre 2013), in alcuni Paesi membri dell’Unione si è diffusa una forte preoccupazione circa l’incidenza che la libera circolazione dei cittadini può determinare sul mercato del lavoro locale e sui sistemi di sicurezza sociale dello Stato ospitante. Di per sé, il fenomeno non è certo nuovo: tutti ricordiamo la paura diffusasi in Francia, all’indomani del grande allargamento del 2004, di una vera e propria “invasione” di… idraulici polacchi (!), risultata poi del tutto infondata ma sufficiente ad influenzare negativamente il dibattito nazionale sul referendum relativo al Trattato-costituzione, sfociato – come noto – nella bocciatura di quest’ultimo. La novità, rispetto al passato, è che i timori per gli effetti della mobilità dei cittadini europei non si sono manifestati solo nel dibattito politico (v. per esempio qui; e qui, a partire dal minuto 20:53); essi hanno pure portato ad un “giro di vite” nel trattamento dei cittadini di altri Paesi membri, che solleva non poche perplessità quanto alla sua compatibilità col diritto dell’Unione (v. qui e qui). Come poi dimostra la vicenda del referendum svizzero sull’immigrazione (commentata anche in questo Blog), la questione ha assunto ormai una valenza europea, non limitandosi più ad interessare solo gli Stati membri dell’Unione.
In risposta alle posizioni espresse da alcuni Stati membri, la Commissione europea ha adottato, nel novembre 2013, una comunicazione sulla libera circolazione dei cittadini dell’Unione (COM (2013) 837). Nel documento, oltre ad evidenziare l’assenza di elementi oggettivi che attestino una “relazione statistica tra la generosità dei sistemi di sicurezza sociale e i flussi di cittadini mobili dell’Unione” (ibidem, p. 5), la Commissione ha manifestato l’intenzione di adottare misure a sostegno dell’applicazione, su base nazionale, delle norme sulla cittadinanza europea.
La cittadinanza europea ha mostrato, tuttavia, anche un’altra faccia di fronte alla crisi. Non tutti gli Stati membri, infatti, vedono nei diritti connessi alla cittadinanza europea delle potenziali minacce ai loro bilanci. Alcuni di essi, al contrario, ritengono che l’appeal di questi diritti sia tale da consentirne una facile monetizzazione. Il ragionamento, sotteso, è semplice: in un momento di forti restrizioni di bilancio, la “vendita” della cittadinanza nazionale, e dunque – in virtù del disposto di cui all’art. 20.1 TFUE – di quella europea, può rappresentare un’entrata significativa (e relativamente sicura) per le casse dello Stato. È infatti abbastanza probabile che vi siano cittadini di Paesi terzi disponibili ad investire anche consistenti somme di denaro per godere dei benefici derivanti dall’appartenenza all’Unione.
A questa logica si ispira, per esempio, il programma Cyprus Citizenship for Foreign Investors che è stato lanciato dal governo di Nicosia, fortemente provato dalla crisi bancaria deflagrata nel marzo 2013, tramite una decisione del Consiglio dei Ministri del 24 maggio 2013. Come illustra l’accattivante flyer predisposto per pubblicizzare l’offerta, i benefits riconosciuti ai sottoscrittori sono evidenti (anche se non tutti, in verità, direttamente correlati alla cittadinanza europea): libera circolazione all’interno dell’Unione europea, libera circolazione dei capitali, libera circolazione dei servizi e delle merci. Senza contare la possibilità di recarsi in 151 paesi senza la necessità di esser muniti di visto. Il prezzo del pacchetto? 3 milioni di euro in depositi bancari presso istituti di credito operanti nell’isola o 5 milioni in investimenti immobiliari. Più recentemente (dicembre 2013), anche Malta aveva annunciato una riforma della normativa sull’acquisto della cittadinanza basata sullo ius pecuniae. In questo caso, come precisato dal Primo ministro Muscat, il programma (Investor Citizens Scheme) doveva prevedere il versamento una tantum di 650.000 euro nelle casse dello Stato (di cui il 70% sarebbe stato destinato a finanziare progetti coperti dal Fondo nazionale di sviluppo economico e sociale) e la partecipazione ad investimenti immobiliari od obbligazionari di durata quinquennale per ulteriori 500.000 euro. Come nel caso di Cipro, anche la riforma annunciata dal governo maltese non prevedeva alcun requisito di residenza.
Cittadinanza dell’Unione in vendita: la reazione degli altri Stati e delle istituzioni UE
Contrariamente a quanto avvenuto per il programma cipriota, però, la reazione di altri Stati membri e quella delle istituzioni dell’UE (su tutte, Parlamento europeo e Commissione) hanno portato a ridimensionare il progetto maltese. In particolare, alcuni Stati dell’Unione hanno censurato la logica sottostante alla prospettata riforma che avrebbe, di fatto, garantito solo a Malta vantaggi economici, scaricando sugli altri Paesi dell’Unione i “costi” della mobilità dei nuovi cittadini. Il Parlamento europeo ha espresso la sua posizione con una risoluzione sulla “Cittadinanza dell’Unione in vendita”, adottata dalla plenaria il 16 gennaio 2014. Esso, richiamando in particolare il principio di leale cooperazione previsto dall’art. 4.3 TUE (punto 4 della risoluzione), ha osservato che “la cittadinanza dell’UE implica un interesse nell’Unione e dipende dai legami di una persona con l’Europa e i suoi Stati membri o dai legami personali con cittadini dell’Unione” (punto 7); e ha sottolineato che “la cittadinanza dell’UE non dovrebbe mai diventare un prodotto commerciabile” (ibid.) e che “che i diritti conferiti dalla cittadinanza dell’UE si fondano sulla dignità umana e non dovrebbero essere acquistati o venduti a nessun prezzo” (ibidem, punto 8). Basandosi dunque sul valore identitario della cittadinanza dell’Unione – che, come la Corte di giustizia ha ribadito in più occasioni, è destinata a divenire lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri (v. per es. la sentenza Rottmann, in causa C-135/08, punto 43) – e sulla necessità che i titolari della stessa presentino un genuino attacco con l’Unione e i suoi Stati membri, il Parlamento ha invitato Malta a rivedere il programma e la Commissione a interessarsi della vicenda per verificare il rispetto dei valori dell’Unione. La Commissione ha così avviato un negoziato con le autorità maltesi, paventando la possibilità di aprire una procedura d’infrazione per violazione del principio di leale cooperazione (v. qui). In data 29 gennaio 2014, la Commissione europea e le autorità maltesi sono pervenute ad una composizione amichevole della controversia (MEMO/14/70). In base all’accordo raggiunto, in particolare, il governo della Valletta si è impegnato a modificare il programma prevedendo che i richiedenti non possano ottenere la cittadinanza senza aver risieduto nell’isola per almeno un anno prima del provvedimento di naturalizzazione.
Quali limiti alla vendita della cittadinanza UE?
Indipendentemente dalla diversa reazione manifestata rispetto ai programmi cipriota e maltese (probabilmente dovuta al minor impegno finanziario richiesto da quest’ultimo e, quindi, alla maggior “facilità” nell’acquisto della cittadinanza), è bene domandarsi quali siano effettivamente i limiti imposti dal diritto dell’Unione europea rispetto alla vendita della cittadinanza (la questione è stata affrontata pure qui e qui). Ciò tenuto anche conto del fatto che altri Stati dell’Unione (Portogallo, Spagna e Grecia, per esempio, ma pure la stessa Italia) si sono nel frattempo dotati di normative volte a facilitare l’attribuzione dei permessi di soggiorno nei confronti di cittadini di Paesi terzi disposti ad investire nel loro territorio. E che tali permessi non di rado rappresentano l’anticamera per l’attribuzione della cittadinanza o, quantomeno, dello status di soggiornanti di lungo periodo ai sensi della Direttiva 2003/109/CE (la quale, come ben noto, impone una sostanziale parità di trattamento coi cittadini UE).
Ora, il punto di partenza obbligato è ancor oggi rappresentato dalla formula Micheletti, elaborata dalla Corte di giustizia nel 1992 (in causa C-369/90). In base ad essa, conformemente al diritto internazionale, le modalità di acquisto e perdita della cittadinanza rientrano nella competenza dei singoli Stati membri, che debbono tuttavia esercitarla nel rispetto del diritto UE. Secondo una felice espressione coniata in dottrina (Ballarino), l’ordinamento UE avrebbe così manifestato l’intento di esercitare una funzione tutelare sulle norme internazionali rilevanti. Tale funzione non è stata tuttavia puntualmente precisata dalla Corte, che si è limitata a riconoscere in Micheletti che gli Stati non possono esercitare la suddetta competenza limitando l’effetto utile delle norme UE. È evidente però che una simile eventualità è difficilmente ipotizzabile nei casi sopra considerati, dal momento che l’introduzione di uno ius pecuniae determina un’estensione (non una limitazione!) dell’ambito di applicazione soggettiva delle norme sulla cittadinanza UE.
Possono invocarsi, allora, altri limiti alla competenza degli Stati membri riguardo alle modalità di acquisto della cittadinanza? Parlamento e Commissione, come visto sopra, hanno richiamato il principio di leale cooperazione, oggi previsto dall’art. 4.3 TUE, lamentandone una possibile violazione alla luce delle ricadute sistemiche che la vendita di cittadinanza può determinare. In effetti, il principio era stato in precedenza evocato anche dall’Avvocato generale Maduro nelle sue conclusioni relative al caso Rottmann, un altro leading case in tema di cittadinanza. Maduro vi aveva fatto tuttavia riferimento in relazione all’ipotesi in cui uno Stato membro avesse proceduto, senza consultare la Commissione e gli altri Paesi, ad una ingiustificata naturalizzazione di massa di cittadini di Paesi terzi (punto 31 delle conclusioni). Ed effettivamente, l’invocazione del principio di leale cooperazione in subiecta materia appare possibile solo rispetto ad un comportamento unilaterale e immotivato di uno Stato che abbia un impatto significativo (e presumibilmente negativo) sugli altri attori dell’Unione. Da un lato, infatti, va tenuto presente che la leale cooperazione imposta dal diritto primario si basa su una relazione di reciprocità, richiedendo una mutua collaborazione e, dunque, la ricerca di una posizione di equilibrio tra le differenti posizioni espresse dai diversi attori dell’UE. Dall’altro, occorre rammentare che l’art. 4 TUE, al par. 2, prevede altresì il rispetto delle identità nazionali degli Stati membri, di cui la cittadinanza è certamente espressione privilegiata. Difficile dunque sostenere che misure quali quelle introdotte dal governo cipriota o ipotizzate dal governo maltese possano comportare per se una violazione della leale cooperazione, stante il limitato impatto pratico che, alla luce dell’impegno finanziario da esse richiesto, è lecito attendersi. Ciò a meno di non voler interpretare il principio di leale cooperazione, come sembrano sottintendere Parlamento e Commissione, nel senso di imporre agli Stati membri un obbligo di fedeltà unilaterale all’Unione. Questo approccio, che per la verità è già stato avallato dalla Corte di giustizia in casi in cui si è trattato di verificare la lealtà del comportamento tenuto dagli Stati membri sulla scena internazionale (e che abbiamo avuto modo di criticare in altra sede), rischia però di incrinare seriamente i rapporti sistemici all’interno dell’Unione, non apparendo in linea con l’attuale livello di integrazione raggiunto dall’ordinamento. Non è un caso, da questo punto di vista, che, nel corso del dibattito tenutosi in seno al Parlamento europeo in vista dell’adozione della risoluzione sulla cittadinanza, il rappresentante della Presidenza dell’Unione, Dimitrios Kourkoulas, abbia difeso la posizione maltese, affermandone la piena legittimità alla luce del diritto UE.
Più difficile ancora ipotizzare poi una violazione dei valori dell’Unione (e questo indipendentemente dalla “timidezza” sin qui dimostrata dalle istituzioni UE rispetto al meccanismo di enforcement previsto dall’art. 7 TUE: v. qui e qui). In primo luogo, va ricordato che la cittadinanza UE non è espressamente menzionata tra i valori sui cui l’Unione si basa. Certo, è ragionevole ipotizzare che ad essa si faccia indirettamente rinvio per il tramite del valore della democrazia, dato che – in base all’art. 10.1 TUE – l’Unione risulta fondata sulla democrazia rappresentativa, di cui evidentemente la cittadinanza è un elemento centrale. Sostenere, però, nei casi in esame, una violazione del valore democratico significherebbe necessariamente accedere ad una nozione identitaria della cittadinanza europea che certifica un rapporto di appartenenza politica del singolo all’ordinamento UE basato sull’esistenza di un genuine link. Tutto questo appare, francamente, difficilmente ipotizzabile allo stato attuale del processo d’integrazione.
Posto che il diritto UE non pare al momento ostare a normative statali sull’acquisto della cittadinanza basate sullo ius pecuniae, resta da vedere se una simile pratica contrasti col diritto internazionale applicabile in materia. In base alla posizione assunta dalla Commissione europea nel corso del dibattito parlamentare sulla vendita della cittadinanza europea, questa eventualità sarebbe tutt’altro che remota. La Commissione, in particolare, ha richiamato la celebre sentenza della Corte internazionale di giustizia nel caso Nottebohm (1955), che avrebbe certificato l’esistenza di un principio generale di diritto internazionale che richiede l’esistenza di un legame effettivo – un genuine link, appunto – tra l’individuo interessato e lo Stato. È tuttavia noto che la dottrina non è affatto unanime nell’accettare questa lettura della pronuncia. D’altra parte, anche l’eterogeneità della prassi disponibile (i Paesi europei sopra richiamati non sono certo gli unici Stati ad aver introdotto dei sistemi di acquisto della cittadinanza basati sullo ius pecuniae: v . qui) suggerisce maggior cautela circa l’esistenza di un principio siffatto. Senza contare poi che la sua applicazione rischierebbe di determinare pericolosi cortocircuiti nei meccanismi interni alla cittadinanza europea: se si fosse applicato questo criterio nel caso Micheletti (che riguardava, come noto, un individuo avente cittadinanza italiana ed argentina, ma col centro dei propri interessi nello Stato sudamericano) difficilmente si sarebbe riconosciuta la cittadinanza europea del soggetto interessato…
Insomma, per quanto possa non piacere, o, per mutuare le parole dell’Avvocato generale Tesauro nella causa Micheletti, possa apparire poco “romantica” l’idea che un miliardario russo o cinese compri la cittadinanza di un Paese membro dell’Unione e divenga, per tale via, un cittadino europeo, resta difficile affermare in termini assoluti che ciò sia, allo stato attuale, illegittimo.
No Comment