La Santa Sede e le recenti Osservazioni del Comitato per i diritti del bambino: alcune riflessioni
Pochi giorni orsono, il 5 febbraio, il Comitato per i diritti del bambino ha pubblicato le proprie osservazioni conclusive relative al secondo rapporto periodico della Santa Sede riguardante l’applicazione della Convenzione sui diritti del bambino, di cui la Santa Sede è membro dal 1990 “on its own behalf and on that of the Vatican City State”. Com’era prevedibile, le osservazioni del Comitato, che riguardano in parte la gestione del cosiddetto scandalo pedofilia da parte della Chiesa cattolica romana, hanno attirato l’attenzione dei media mondiali. Esse hanno però anche provocato le reazioni di chi, Oltretevere, ritiene che il Comitato non abbia compreso la “natura specifica” della Santa Sede ed abbia travalicato il proprio mandato muovendo censure inerenti “l’insegnamento della Chiesa”.
Un buon punto di partenza per analizzare le osservazioni del Comitato è proprio la “natura specifica” della Santa Sede nel contesto del diritto internazionale e dell’applicazione della Convenzione dei diritti del bambino. Per iniziare, l’espressione è quantomai corretta, in quanto si tratta di un caso particolare. Non a caso, la dottrina internazionalistica ha tradizionalmente collocato la Santa Sede nella categoria dei soggetti di diritto internazionale sui generis, ossia diversi dallo Stato-nazione archetipo del modello westphaliano. Per usare la definizione data dalla stessa Santa Sede, essa sarebbe: “a sovereign subject of international law having an original, non derived legal personality independent of every territorial authority or jurisdiction” (Replies of the Holy See to the list of issues, p. 3, par. 2).
Ma le specificità, e gli elementi di complessità, non finiscono qui, perché, per usare una metafora teologica, si può dire che la Santa Sede è giuridicamente una e trina. Da un lato, cioè, essa è quel soggetto sui generis di diritto internazionale cui si accennava sopra, ma dall’altro essa coincide anche con l’entità che esercita il potere di governo su uno Stato avente un suo territorio ed una sua popolazione, e soprattutto con l’autorità suprema della Chiesa cattolica romana, un’organizzazione ecclesiastica globale, presente ed attiva sul territorio di quasi tutti gli Stati del mondo. Tridimensionalità che filtra anche dalle definizioni date dalla Santa sede nei documenti inviati al Comitato: “the Holy See, intended as the Roman Pontiff, in the narrow sense, and the Roman Pontiff with his dicasteries, in the broader sense… is related but separate and distinct from the territory of Vatican City State (VCS) over which the Holy See exercises sovereignty… is related, but separate and distinct from the Catholic Church, which is also a non territorial entity and may be defined as a spiritual community of faith…” (Ibid. pp. 3-4). In questo contesto il problema è ovviamente come distinguere queste diverse dimensioni, dove tracciare il confine per l’attribuzione di una condotta alla Santa Sede. La questione era già emersa nel pieno dello scandalo pedofilia negli Stati Uniti, quando diverse vittime avevano deciso di agire per il risarcimento non solo nei confronti del supposto autore dell’abuso e dell’ordine o diocesi da cui questi dipendeva, ma anche nei confronti della Santa Sede. Il caso più noto, in questo senso, è probabilmente John V. Doe v. Holy See et al., del 2006, concernente il risarcimento dei danni fisici e morali conseguenti agli abusi sessuali commessi da un prete in servizio presso una parrocchia di Portland, in Oregon. In tale frangente, si confrontarono due tesi. Da un lato, la Santa Sede aveva sostenuto che in base al diritto canonico le arcidiocesi fossero entità giuridiche separate dalla Santa Sede, competenti per l’amministrazione e l’organizzazione delle parrocchie rientranti nel loro territorio, e che quindi la Santa Sede non potesse essere ritenuta responsabile per la condotta del prete di Portland. La tesi opposta, poi accolta dal giudice Mosman, della Corte distrettuale dell’Oregon, sosteneva invece l’esistenza di un legame più stretto tra la Santa Sede e gli atti del prete in questione, sulla base di alcuni elementi, tra cui: 1) Il potere supremo del Papa rispetto ad ogni rappresentante del clero cattolico; 2) il potere del Papa di nominare, assegnare, rimuovere e riassegnare i vescovi, e tramite i vescovi i singoli membri del clero; 3) Il dovere d’obbedienza al Papa da parte di ogni rappresentante del clero; 4) il fatto che la Santa Sede richiedesse ad ogni vescovo un rapporto dettagliato riguardant i membri del clero dipendenti dalla diocesi, ecc… Il caso in questione fu molto discusso, anche perché il giudice non aveva concesso l’immunità dello Stato alla Santa Sede. E sebbene la decisione del giudice Mosman (in parte censurata in appello prima che la Corte Suprema rifiutasse il writ of certiorari) si fondasse interamente sulla Tortious Activity Exception del Foreign Sovereign Immunity Act (FSIA) statunitense (28 U.S.C 1605(5)), esiste certamente spazio per interrogarsi sulla problematica dell’immunità della Santa Sede dal punto di vista del diritto internazionale. La questione è, infatti, almeno in parte legata all’inevitabile “tridimensionalità” della Santa Sede. Per esempio, si può notare che la Santa Sede non coincide perfettamente con lo Stato del Vaticano (“is related but separate and distinct…”), e ci si può quindi chiedere se essa goda dell’immunità dello Stato straniero pur non essendo tecnicamente uno Stato. Per ragioni comprensibili, la pratica in tema d’immunità dello Stato straniero concerne Stati veri e propri, ed in questi termini il problema è generalmente analizzato dalla dottrina, dalle giurisprudenza, e anche da convenzioni come quella dell’ONU sull’immunità degli Stati (non ancora in vigore, ma spesso indicato come documento di riferimento in materia di codificazione). È altresì vero, però, che le corti statunitensi, nei casi inerenti lo “scandalo pedofilia” hanno applicato senza remore lo FSIA alla Santa Sede, mostrando di considerarla alla stregua di uno Stato straniero. Insomma, anche se esiste lo spazio per estendere l’immunità dello Stato alla Santa Sede (trattandola “come” uno Stato) questa soluzione non è ovvia come potrebbe sembrare. Tornando all’applicazione della Convenzione sui diritti del bambino, anche il Comitato si è interrogato circa la natura giuridica della Santa Sede, chiedendosi quali fossero i limiti degli obblighi da essa contratti, ed ha risposto in modo piuttosto tranchant, dando una lettura unitaria del problema: “While being fully conscious that bishops and major superiors of religious institutes do not act as representatives or delegates of the Roman Pontiff, the Committee nevertheless notes that subordinates in Catholic religious orders are bound by obedience to the Pope in accordance with Canons 331 and 590. The Committee therefore reminds the Holy See that by ratifying the Convention, it has committed itself to implementing the Convention not only on the territory of the Vatican City State but also as the supreme power of the Catholic Church through individuals and institutions placed under its authority.” (Concluding Observations, p. 2, par. 8). Si tratta di uno sviluppo che la Santa Sede aveva probabilmente previsto, e cercato di evitare. Nell’introduzione alle Replies to the List of issues è infatti enfatizzato e ripetuto più volte il concetto per cui “a territorial reality is required for implementation” (p. 5). Evidentemente, l’auspicio era di poter limitare la responsabilità internazionale della Santa Sede per un’eventuale violazione della Convenzione alla sola giurisdizione territoriale della Città del Vaticano. Non ha funzionato, e le conseguenze potrebbero essere molto rilevanti. Le parole del Comitato sembrano doversi intendere nel senso che gli obblighi della Santa Sede derivanti dalla Convenzione debbano estendersi a tutti i minori in qualche modo coinvolti nelle attività di seminari, scuole, parrocchie, orfanotrofi, o altre istituti o attività gestite da diocesi o ordini religiosi riconducibili alla Chiesa cattolica romana, ovunque nel mondo. Il fatto di essere presenti sul piano internazionale prevalentemente attraverso l’interfaccia della Santa Sede, anziché quella dello Stato della Città del Vaticano, permette certamente di parlare con una voce più rilevante di quella di uno Stato di un chilometro quadrato. Al contempo, tuttavia, ciò può avere dei rischi. Per esempio, è difficile restringere territorialmente la responsabilità di un ente a-territoriale. In fondo, a maggiori poteri, corrispondono maggiori responsabilità. Com’è ormai noto, perché riportato da diversi mezzi d’informazione, oltre al tema dell’abuso di minori, il Comitato si è espresso in relazione alla situazione delle vittime delle Magdalene laundry irlandesi, di quella dei figli dei preti, nonché con riguardo all’uso delle punizioni corporali nell’ambito delle attività e degli istituti riconducibili alla Chiesa cattolica. In relazione a queste problematiche, il Comitato ha raccomandato (in alcuni casi richiesto) alla Santa Sede di porre in essere delle inchieste che permettano di sanzionare gli autori di crimini contro i minori, di collaborare con le autorità nazionali competenti, di sostenere e risarcire le vittime. In alcuni casi, ha richiesto di rinunciare, o vietare chiaramente alcune pratiche, come le punizioni corporali, o le clausole di riservatezza a cui sono stati talvolta condizionati i risarcimenti per le vittime di abusi, o gli aiuti finanziari diretti ai figli di preti ed alle loro madri. Vi sono però altre raccomandazioni che hanno sollevato critiche particolarmente dure da parte della Santa Sede, la quale ha parlato di “un tentativo di interferire nell’insegnamento della Chiesa Cattolica sulla dignità della persona umana e nell’esercizio della libertà religiosa”. Si tratta di quei passaggi in cui il Comitato ha richiesto alla Santa Sede “to remove from Catholic Schools textbooks all gender stereotyping which may limit the development of the talents and abilities of boys and girls…”, o “to ensure that an interpretation of Scripture as not condoning corporal punishment is reflected in Church teaching and … incorporated into all theological education and training”, o ancora, “ensure that sexual and reproductive health education and prevention of HIV/AIDS is part of the mandatory curriculum of Catholic schools … with special attention at preventing early pregnancy and sexually transmitted diseases”.
Non crea generalmente scandalo che un quasi-judicial body muova dei rilievi ad uno Stato con riguardo, per esempio, ai programmi scolastici (anche di educazione sessuale), sanitari, all’interpretazione del diritto nazionale, all’accesso delle donne alla vita pubblica del paese, ecc…, anche con riguardo a questioni moralmente sensibili. Ora, il problema del caso specifico è che questi rilievi sono particolarmente difficili da recepire per la Santa Sede, perché essa non rappresenta soltanto il governo di uno Stato, ma anche anche una comunità religiosa. Le questioni di interpretazione del diritto interno possono quindi coinvolgere anche l’interpretazione della Bibbia, fonte di diritto canonico; le sanzioni possono consistere nella scomunica; la formazione dei pubblici ufficiali può passare per l’insegnamento teologico. Tutte questioni sensibili per un’organizzazione religiosa. Di quest’ambiguità, però, il Comitato non è responsabile. Esso deve vegliare sull’applicazione della Convenzione, e non può differenziare radicalmente il trattamento delle Parti contraenti. Tanto più che la comunità religiosa in questione, tramite la sua massima autorità, ha accettato le obbligazioni derivanti dalla Convenzione.
Il fastidio d’Oltretevere è certamente comprensibile, ma lo sarebbe di più se non provenisse dall’unica organizzazione religiosa ad avere sia una personalità giuridica internazionale, sia un proprio Stato. Ancora una volta, si può invocare il principio per cui a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità. Se si vuole mantenere il potere di influenzare la politica internazionale, avendo accesso privilegiato ai luoghi in cui viene discussa, con tanto di immunità diplomatica e possibilità di negoziare i testi di trattati internazionali, bisogna al contempo accettare che la propria politica interna venga messa in discussione alla luce del diritto internazionale, soprattutto dei trattati di cui si è parte contraente. Così avviene per gli Stati, e se non si vuole essere trattati da Stato, per salvaguardare la propria dottrina, ci si può sempre comportare come tutte le altre Chiese del mondo, che non stipulano trattati e non hanno una missione permanente presso l’ONU. Comunque la si voglia vedere, la natura ambigua di un’entità al contempo Chiesa, Stato e soggetto di diritto internazionale può rivelarsi un’arma a doppio taglio. A volte comporta inconvenienti.
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