Gli atti delegati ed esecutivi nel diritto UE: genesi e prospettive di una distinzione
Atti delegati e atti esecutivi: un’interpretazione autorevole
Lo scorso 19 dicembre l’Avvocato generale Cruz Villalón ha presentato le proprie conclusioni in merito ad una controversia instaurata dalla Commissione avverso Parlamento e Consiglio dell’Unione circa gli ambiti di applicazione degli atti delegati e degli atti esecutivi (Causa C-427/12). A quattro anni dalla previsione di tali atti nel TFUE, la Corte di giustizia ha per la prima volta l’occasione di formulare alcune considerazioni sul loro significato e sulla loro portata. Come rilevato dallo stesso Avvocato generale, si tratta di un’occasione “letteralmente inaugurale”, con importanti implicazioni per l’esercizio della funzione normativa dell’UE e per le relazioni tra le istituzioni in esso coinvolte.
Come noto, il Trattato di Lisbona ha apportato rilevanti modifiche all’ordinamento giuridico dell’Unione e, segnatamente, al suo sistema di fonti. Riprendendo molte delle novità proposte nel (mai adottato) Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa del 2003, il Trattato del 2009 ha introdotto due nuovi strumenti giuridici: gli atti delegati (art. 290 TFUE) e gli atti esecutivi (art. 291 TFUE). L’art. 290 TFUE prevede che attraverso un atto legislativo si possa delegare alla Commissione il potere di adottare “atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo”. L’art. 291 TFUE, invece, prevede che, quando siano necessarie “condizioni uniformi di esecuzione”, la competenza esecutiva possa essere conferita alla Commissione ovvero, in casi specifici, al Consiglio.
La controversia in questione nasce da un ricorso per annullamento presentato dalla Commissione, in merito al quale la Corte è chiamata a pronunciarsi su un’asserita violazione del “sistema di attribuzione dei poteri di regolamentazione” di cui agli artt. 290 e 291 TFUE. La Commissione chiede l’annullamento dell’art. 80 del regolamento (UE) 528/2012 recante disposizioni sulla commercializzazione e sull’uso dei biocidi, nella parte in cui prevede l’emanazione di un regolamento di esecuzione per determinare le tariffe dovute all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA). La Commissione, viceversa, ritiene che tale materia debba essere disciplinata attraverso un regolamento delegato, dal momento che l’atto che le viene chiesto di adottare è in realtà diretto a completare taluni elementi non essenziali dell’atto legislativo.
In vista della pronuncia della Corte, l’Avvocato generale ha condotto un approfondito inquadramento delle questioni giuridiche sottese al ricorso, mettendo in luce i tratti distintivi degli atti delegati e degli atti d’esecuzione. Egli ha rilevato che, in primo luogo, la delegazione legislativa e l’attività d’esecuzione postulano un diverso riparto di competenze tra Stati membri e Unione europea e che, in secondo luogo, esse afferiscono a funzioni sostanzialmente differenti. Per quanto concerne il primo aspetto, l’Avv. gen. Cruz Villalón ha sottolineato che, nel caso della delegazione legislativa, si opera sempre nell’ambito delle competenze dell’Unione europea; invece, nel caso dell’esecuzione di norme comunitarie vincolanti si ricade normalmente nell’ambito di competenza degli Stati membri. Solamente qualora siano necessarie “condizioni uniformi d’esecuzione”, la competenza esecutiva spetta all’Unione. Con riguardo alle differenze sostanziali tra delegazione ed esecuzione, l’Avvocato generale ha ricordato che la prima si colloca all’interno di una fase essenzialmente normativa e ha ad oggetto il perfezionamento dell’attività legislativa svolta da Parlamento e Consiglio (si noti, l’Avvocato generale ritiene che la delegazione ex art. 290 corrisponda a una sorta di delegazione in senso materiale); la seconda, invece, appartiene a una fase successiva a quella normativa e ha a oggetto la semplice implementazione di norme ormai definite e complete.
Ulteriore aspetto focale delle conclusioni è rappresentato dall’approfondimento in merito alla relazione tra atti delegati e atti esecutivi. Nel corso del procedimento sono emerse tesi divergenti circa la possibilità di marcare un confine tra l’ambito applicativo dell’art. 290 TFUE e quello dell’art. 291 TFUE (la Commissione ha sostenuto che gli ambiti di applicazione degli artt. 290 e 291 TFUE siano “nettamente separati”; alcuni intervenienti, invece, hanno sostenuto l’esistenza di una “zona grigia”). L’Avvocato generale ha nondimeno ritenuto che la questione così formulata abbia scarsa rilevanza pratica ed ha scelto di concentrarsi sui limiti del sindacato della Corte rispetto al modo in cui il legislatore dell’Unione amministra l’alternativa tra atti delegati ed atti esecutivi. A tale riguardo, egli ha affermato che il sindacato della Corte è limitato e che le valutazioni di questa non possono in alcun caso sostituirsi a quelle del legislatore. Sennonché, l’Avv. gen. ha aggiunto che il significato degli artt. 290 e 291 TFUE è così diverso da non potersi ammettere un’assoluta discrezionalità del legislatore nella scelta dell’uno ovvero dell’altro tipo di atto. Per valutare la correttezza della scelta operata da Parlamento e Consiglio, la Corte dovrà considerare caso per caso se i co-legislatori avessero l’intento di “interrompere l’attività normativa, una volta raggiunto […] il confine dell’’essenziale’, oppure di conferire alla Commissione […] il potere di adottare atti di applicazione generale direttamente connessi alle esigenze della fase d’esecuzione” (cfr. p.to 78 delle conclusioni).
L’istituzione di un livello normativo intermedio tra legislazione ed esecuzione
Il percorso istituzionale che ha portato al riconoscimento nel diritto primario dell’UE di un livello normativo intermedio tra legislazione ed esecuzione ebbe avvio nel 2001, quando il Comitato di Saggi presieduto dall’economista ungherese Alexandre Lamfalussy produsse un rapporto riguardante la regolamentazione dei servizi finanziari. Per assicurare maggiore dinamismo e flessibilità al processo decisionale comunitario, i Saggi proposero di regolamentare il mercato finanziario seguendo un procedimento strutturato su quattro livelli. Al primo livello – ossia quello che qui interessa –, sarebbe stato compito di Parlamento e Consiglio inserire nell’atto di base gli elementi essenziali (“key political choices”) della futura normativa, conferendo invece alla Commissione un mandato per l’adozione degli elementi non essenziali. Il mandato avrebbe dovuto specificare i limiti dei poteri delegati alla Commissione. A garanzia della democraticità e del bilanciamento istituzionale, era previsto che il Parlamento potesse adottare una risoluzione, qualora ritenesse che le misure adottate dalla Commissione eccedessero i limiti del mandato. La risoluzione avrebbe imposto alla Commissione l’obbligo di presentare una nuova proposta, tenendo in considerazione quanto affermato nella risoluzione del Parlamento. In definitiva, si trattava di una ‘rudimentale’ forma di controllo della delega.
Successivamente, nel corso della Convenzione europea, il c.d. Lamfalussy process rappresentò un precedente per la previsione dei regolamenti delegati, disciplinati nell’art. I-35 della “Costituzione europea”. Tuttavia, vista la sorte toccata al progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, si decise di intervenire sul diritto derivato attraverso una modifica dell’atto che disciplina l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione (ossia la decisione c.d. “comitatologia”). A Trattati invariati, tale atto costituiva l’unico riferimento normativo capace di accogliere se non la lettera, almeno lo spirito dell’art. I-35 della “Costituzione europea”. In aggiunta alle già vigenti procedure consultiva, di gestione e di regolamentazione, si introdusse quindi la procedura di regolamentazione con controllo, da applicarsi qualora “un atto di base adottato secondo la procedura di codecisione [ossia l’odierna procedura legislativa ordinaria] prevedesse l’adozione di misure di portata generale intese a modificare elementi non essenziali di tale atto, anche sopprimendo taluni di questi elementi, o a completarlo tramite l’aggiunta di nuovi elementi non essenziali” (cfr. art. 2 par. 2 e art. 5 bis della decisione del Consiglio 1999/468/CE, come modificata dalla decisione 2006/512/CE). Ai sensi della decisione così emendata, il Parlamento, posto su un piano di quasi parità con il Consiglio, avrebbe potuto impedire alla Commissione di adottare le misure proposte secondo tale procedura attraverso l’esercizio di un potere d’opposizione. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e la previsione di due basi giuridiche distinte per la delegazione legislativa (art. 290 TFUE) e la funzione esecutiva (art. 291 TFUE), il sistema “comitatologia” è stato rivisto e semplificato. In conformità all’art. 291 par. 3 TFUE Parlamento e Consiglio hanno adottato il regolamento (UE) 182/2011 recante le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione. Con esso è stata abrogata la decisione 1999/468/CE ed è stato istituito un sistema di comitati che prevede due procedure – la procedura consultiva e la procedura d’esame – e un comitato d’appello. È interessante notare che della comune origine di atti delegati e atti esecutivi si dà ancora conto nelle tavole di corrispondenza allegate ai Trattati. Qui, infatti, si specifica che gli artt. 290 e 291 TFUE “sostituiscono, nella sostanza, l’articolo 202, terzo trattino, del trattato CE”, ossia l’articolo che costituì la base giuridica per l’adozione della decisione “comitatologia”.
La prassi istituzionale: i limiti del sindacato giurisdizionale
Già prima del Trattato di Lisbona si poteva quindi rinvenire nell’ordinamento comunitario la distinzione tra atti della Commissione capaci di integrare o modificare le disposizioni contenute in un atto legislativo e atti della Commissione aventi una funzione meramente esecutiva. Sicché, le istituzioni dell’Unione acquisirono una certa dimestichezza nell’utilizzo di fonti normative che, sul piano sostanziale, si collocavano tra legislazione e mera esecuzione. Nondimeno, nella prassi istituzionale legata alla decisione “comitatologia” si pose spesso il problema di determinare se l’esercizio di un certo potere di regolamentazione dovesse considerarsi il perfezionamento di un’attività normativa avviata dai co-legislatori dell’Unione (e soggiacente alla procedura di regolamentazione con controllo) ovvero se tale potere fosse solamente connesso alle esigenze della fase d’esecuzione (e soggiacesse alle altre procedure comitatologiche). Nei casi controversi, le istituzioni dell’UE svilupparono la prassi di giungere a un accordo a seguito di negoziati condotti nel contesto dei c.d. triloghi (incontri informali tra alcuni rappresentanti di Parlamento, Consiglio e Commissione). Ancora oggi, quando sorge un contrasto tra le tre istituzioni circa la necessità di far uso di un atto delegato ovvero di un atto esecutivo, esse cercano di raggiungere un compromesso. Pare verosimile che proprio grazie a tale concertazione – e a un certo spirito di cooperazione – la Corte di giustizia non sia mai stata prima d’ora adita per la risoluzione di un conflitto interistituzionale riguardante l’esercizio dei poteri di cui agli artt. 290 e 291 TFUE.
Tanto detto, in che termini la Corte può concretamente esperire un sindacato sulle scelte (o sui compromessi) dei co-legislatori? Richiamando quanto osservato dall’avv. gen. Jääskinen in un ricorso recentemente deciso dalla Corte (Causa C-270/12, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio), l’avv. gen. Cruz Villalón fa proprio l’assunto per cui “the existence of borderline cases does not imply the absence of clear positive or negative ones” (cfr. nota 30 delle conclusioni). L’Avvocato generale sembra dunque suggerire una distinzione tra quei casi ove una violazione degli artt. 290 e 291 TFUE è chiara e manifesta e quei casi, invece, ove risulta difficile separare nettamente tra delegazione ed esecuzione. Solo rispetto ai primi la Corte disporrebbe di un sindacato pieno; rispetto ai secondi, il sindacato della Corte sembrerebbe chiamato a rispettare la discrezionalità dei co-legislatori dell’UE. Tale impostazione sembra volta ad individuare un giusto equilibrio tra discrezionalità e sindacato giurisdizionale: da una parte, infatti, riconosce a PE e Consiglio una certa libertà nei casi ‘marginali’; nello stesso tempo afferma il potere della Corte di verificare la conformità delle scelte delle due istituzioni ai principi generali che governano – e che permettono di differenziare – i poteri di regolamentazione di cui agli artt. 290 e 291 TFUE. Ora la parola spetta alla Corte.
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