Delisting e rilievo del danno morale scaturente da una decisione di blacklisting nell’ambito dell’Unione europea: il cerchio si chiude
A distanza di più di dieci anni dall’adozione della prima risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la questione dell’iscrizione nelle blacklists dei nomi di soggetti sospettati di affiliazione a gruppi terroristici internazionali continua ad impegnare la Corte di giustizia dell’Unione Europea, che, riunita in Grande Chambre, ha adottato di recente due importanti decisioni in materia (Abdulrahim contro Consiglio e Commissione, sentenza del 28 maggio 2013, causa C-239/12P e Commissione europea e altri contro Yassin Abdullah Kadi, sentenza del 18 luglio 2013, cause riunite C-584/10P, C-593/10P e C-595/10P, d’ora in poi, Kadi II).
In linea generale, come si sa, la Corte ha stabilito che tutti gli atti dell’Unione Europea sono soggetti al controllo di legittimità degli organi giurisdizionali dell’Unione quando sia da verificare la loro compatibilità con il rispetto dei diritti fondamentali (come il diritto alla difesa, alla vita familiare e quello di proprietà), che costituiscono parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Siffatto controllo non può essere messo in discussione dalla circostanza che gli atti che ne sono oggetto siano destinati a dare esecuzione a risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite
“Al punto 126 della sentenza impugnata, il Tribunale ha dichiarato che … il regolamento controverso non poteva beneficiare di una qualsivoglia immunità giurisdizionale per il fatto di essere volto ad attuare risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Non hanno subito alcuna evoluzione che giustifichi che detta soluzione sia rimessa in discussione i diversi elementi che … corroborano tale soluzione accolta dalla Corte … attinenti in sostanza al valore di garanzia costituzionale attribuito … al controllo giurisdizionale della legittimità di qualsiasi atto dell’Unione – compresi quelli che, come qui, danno applicazione ad un atto di diritto internazionale – alla luce dei diritti fondamentali garantiti dall’Unione”, punti 65 e 66 sentenza Kadi II, cit..
Sull’affare Kadi, non è mia intenzione soffermarmi qui, data la messe di commenti che la stessa sentenza Kadi II ha sinora ricevuto. Vorrei invece attirare l’attenzione sulla controversia Abdulrahim, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto che l’abrogazione di un atto di blacklisting non compromette la sussistenza dell’interesse ad agire del ricorrente, onde ottenere una pronunzia di annullamento di illegittimità dell’atto medesimo, la quale costituirebbe, a sua volta, una sorta di riparazione del danno derivante dalla lesione della reputazione
“… se il riconoscimento dell’illegittimità dell’atto impugnato non può, in quanto tale, riparare un danno materiale o un pregiudizio alla vita privata, esso può nondimeno … riabilitarlo o costituire una forma di riparazione del danno morale da lui subìto in conseguenza di tale illegittimità, e giustificare quindi la persistenza del suo interesse ad agire”, causa C-239/12 P cit., punto 72.
Il Sig. Abdulrahim – un cittadino britannico – era anch’egli sospettato di aver commesso atti terroristici e, come tale, colpito da una misura di blacklisting, disposta da un regolamento della Commissione (CE) n. 1330/2008 del 22 dicembre 2008. Ritenendo che il provvedimento con il quale il suo nome veniva incluso nell’elenco fosse stato adottato in violazione del proprio diritto alla difesa e, comunque, che fosse sproporzionato, egli lo impugnava dinanzi all’allora Tribunale di primo grado, chiedendo contestualmente il risarcimento dei danni subiti. Nelle more del giudizio, tuttavia, il nome del sig. Abdulrahim veniva espunto, prima dall’elenco del Comitato per le sanzioni e, di conseguenza, da quello della Commissione. Pertanto, il Tribunale definiva il giudizio con un’ordinanza di non luogo a statuire, ritenendo che fosse venuto meno l’oggetto del giudizio e che fosse infondata la domanda risarcitoria (causa T-127/09, Abdulrahim contro Consiglio e Commissione).
L’ordinanza è stata impugnata dinanzi alla Corte, la quale ha anzitutto sottolineato che, mentre l’abrogazione non implica il riconoscimento dell’illegittimità dell’atto e produce effetti ex nunc, con una sentenza di annullamento l’atto viene rimosso retroattivamente e si considera come mai esistito. Inoltre, l’annullamento implica un automatico riconoscimento della presunta illegittimità dell’atto, circostanza che è idonea, di per sé, non solo a dare soddisfazione al ricorrente, ma anche a costituire il fondamento di un’eventuale azione risarcitoria.
A dispetto di quanto potrebbe a prima vista sembrare, tale questione non rileva dal solo punto di vista del diritto processuale (cioè, delle condizioni di procedibilità dell’azione), giocando invece un ruolo determinante per quanto riguarda la tutela della posizione del ricorrente dal punto di vista del diritto sostanziale e, più precisamente, del danno morale che gli deriva da un atto illegittimo.
Già in passato la Corte aveva evidenziato la significativa incidenza sulla vita dei sospetti terroristi delle misure adottate nei loro confronti (cause riunite C‑399/06 P e C‑403/06 P, Hassan e Ayadi), accompagnandosi, allo sconvolgimento della vita professionale e familiare e all’impedimento a concludere numerosi atti giuridici a causa del congelamento dei fondi, la riprovazione e la diffidenza, provocate dalla loro pubblica designazione, per l’appunto, come tali. Proprio per queste ragioni, l’Avvocato generale Bot, nelle proprie conclusioni sul caso Abdulrahim, ha affermato che il ricorrente vanterebbe un “interesse continuativo”, nonostante l’abrogazione dell’atto, ad ottenere il riconoscimento, da parte del giudice dell’Unione, dell’illegittimità della propria iscrizione nell’elenco (Conclusioni dell’A.G. Bot, del 22 gennaio 2013, punto 61). Più precisamente, il ricorrente conserverebbe l’interesse ad agire o per ottenere il ripristino della propria situazione, o per evitare, per il futuro, il ripetersi della medesima illegittimità o, infine, per agire in via risarcitoria.
Conformandosi alla tesi delineata nelle suddette conclusioni, la Corte ha ritenuto che il Tribunale abbia errato nel dichiarare che l’interesse del ricorrente fosse venuto meno in seguito all’abrogazione dell’atto (e ha annullato, con rinvio, l’ordinanza in tale parte), ritenendo che sussista un interesse a che il giudice dell’Unione dichiari che il ricorrente non avrebbe mai dovuto essere iscritto nell’elenco controverso o che non avrebbe dovuto esserlo secondo la procedura seguita dalle istituzioni.
Al riguardo – ed è questo l’elemento di novità della decisione – la Corte ha precisato che, in simili ipotesi, il riconoscimento dell’illegittimità costituisce una forma di riparazione del danno morale a fronte di misure restrittive dotate di particolare incidenza sulla sfera pubblica e privata delle persone interessate.
Questa affermazione contribuisce certamente a riconoscere al soggetto colpito dalla misura illegittima una tutela piena e concreta, ampliandone la portata anche al danno morale, la cui incidenza riveste un ruolo nient’affatto marginale rispetto a quella connessa al danno patrimoniale, in casi del genere. Un simile approccio identifica l’oggetto della tutela nella reputazione del soggetto colpito. Tale circostanza può portare a riconoscere quale fonte di questo tipo di violazione anche un atto che, di per sé, non dovrebbe produrre effetti giuridici nei confronti dei singoli (si pensi alla questione delle conseguenze delle posizioni comuni venute in rilievo nelle cause Segi e Gestoras Pro Amnistía). Una simile interpretazione appare del resto in linea con l’evoluzione del diritto dell’Unione, trovando riscontro nell’introduzione, con il Trattato di Lisbona, dell’art. 275 TFUE. Il par. 2 della norma, infatti, prevede esplicitamente la possibilità di ricorrere in via diretta dinanzi alla Corte di giustizia contro atti PESC che dispongono, nei confronti di persone fisiche e giuridiche, l’adozione di misure restrittive, idonee quindi ad interferire con posizioni soggettive individuali, indipendentemente dal carattere (economico) della restrizione.
Alla luce di quanto precede si può allora ritenere che il … cerchio si sia chiuso; e cioè, che il sistema di tutela dei diritti fondamentali a fronte di pratiche di blacklisting abbia raggiunto un livello di completezza tale da coprire tutte le ipotesi che possono presentarsi nella pratica, in considerazione sia del tipo di atto implicato (cioè tanto gli atti adottati sulla base del TFUE quanto quelli adottati sulla base del titolo V, capo 2, TUE), che del tipo di danno, patrimoniale o morale, che ne deriva al soggetto sospettato di terrorismo.
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