Migranti in fuga da situazioni di conflitto e violenza indiscriminata e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: a margine della sentenza K.A.B contro Svezia
Con la sentenza del 5 settembre 2013 K.A.B. contro Svezia, la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata ancora una volta a pronunciarsi sulla protezione offerta dell’articolo 3 CEDU in caso di respingimento verso Paesi in cui vi siano situazioni di conflitto e violenza indiscriminata. Il risultato tuttavia, è destinato a spegnere le speranze di molti dei richiedenti asilo somali in Europa. La decisione ha avuto origine dal ricorso del signor K.A.B, richiedente asilo somalo, originario di Mogadiscio. Nonostante la storia presenti problemi di credibilità, vi è la certezza che il ricorrente provenga dalla capitale somala e sia affiliato al clan Sheikal, considerato clan minoranza.
Nell’esaminare il caso in questione, la Corte, pur valutando l’ipotesi propugnata dal governo svedese di rinviare il ricorrente in Somaliland, ha ritenuto che non vi fossero concrete possibilità per il ricorrente di esservi ammesso e stabilirvisi, in quanto sia il governo autonomo di Somaliland sia quello della regione autonoma di Puntland hanno sempre sostenuto una chiara politica di non entrèe rispetto agli esuli somali rimpatriati dall’Europa, a meno che essi non provengano da tali territori o appartengano ai clan di maggioranza e possano quindi farvi appello per ottenere aiuto e protezione. Tale giudizio ha ribadito una ormai consolidata giurisprudenza sia della Corte EDU che delle varie corti nazionali europee.
La sentenza presenta, tuttavia, un profilo di grande interesse relativamente alla valutazione fatta dalla Corte nell’accertamento del rischio di violazione dell’articolo 3 CEDU in caso di rinvio del ricorrente verso Mogadiscio, città da cui risulta provenire e in cui sembra risiedere la seconda moglie.
Nel caso in esame, infatti, la Corte ha concluso, dopo un’ attenta analisi dell’attuale situazione in Somalia, e in particolare a Mogadiscio, che nella capitale somala non sussista più una situazione di violenza indiscriminata tale da mettere a rischio chiunque si trovi in città e che il ricorrente possa quindi esservi rimpatriato.
Tale conclusione sembra tuttavia prematura e frutto di un’analisi incompleta che non tiene conto della recente giurisprudenza della Corte, introdotta con la sentenza M.S.S c. Belgio e Grecia (§254) e confermata dal caso Sufi e Elmi c. Regno Unito (§283-292). Questa richiede di prendere in considerazione, nell’accertamento del rischio di violazione dell’articolo 3 CEDU, la capacità di un ricorrente di poter far fronte ai suoi bisogni più basilari come l’alimentazione, l’igiene e alloggio; la vulnerabilità ai maltrattamenti; o ancora la prospettiva di poter veder migliorare la sua situazione in un lasso di tempo ragionevole quando le precarie situazioni umanitarie non siano attribuibili essenzialmente ad eventi naturali quali la siccità, o alla mancanza di risorse da parte dello Stato, ma, come nel caso della Somalia, agli scontri tra fazioni opposte che hanno distrutto il tessuto politico, sociale e produttivo del paese.
Infatti, una giurisprudenza ormai consolidata richiede la valutazione di tutte le possibili conseguenze a cui ciascun ricorrente andrebbe incontro se fosse rinviato nel paese di destinazione sulla base dei criteri espressi dall’art. 3 CEDU, ovvero che vi siano, prima facie, fondati motivi di ritenere che il ricorrente corra un rischio reale di essere sottoposto a tortura o altri trattamenti inumani e degradanti. Sebbene non esista una definizione precisa di cosa costituisca un ‘rischio reale’, il suo perimetro è circoscrivibile tra l’insufficienza di una mera possibilità che tali trattamenti si verifichino e la non necessità della certezza che tali trattamenti possano effettivamente aver luogo (Vilvarajah e altri c. Regno Unito, §111). Tale valutazione richiede la presa in esame di criteri sia oggettivi che soggettivi, vale a dire la situazione nel paese di origine e le circostanze personali dell’individuo, ossia gli stessi fattori chiave della Convenzione sullo status dei rifugiati. Ciò implica normalmente un bilanciamento tra la situazione personale del singolo e quella nel paese di destinazione, ovvero la presunzione di un rischio individuale.
Tuttavia, a partire dalla sentenza N.A c. Regno Unito (§115-116) fino al più recente Sufi e Elmi c. Regno Unito (§218) la Corte ha valutato che, in presenza di situazioni di conflitto armato e violenza generalizzata, dove l’elemento personale del rischio potrebbe risultare impossibile da dimostrarsi, qualsiasi situazione generale di violenza di sufficiente intensità nel paese di destinazione potrebbe creare un rischio reale tale che il respingimento della persona in questione ‘violerebbe necessariamente l’articolo 3, indipendentemente dal fatto che il rischio emani da una situazione generale di violenza, una caratteristica personale del richiedente, o una combinazione delle due’.
Nel constatare se la situazione a Mogadiscio mettesse a rischio chiunque si trovasse nella capitale, in Sufi ed Elmi (§248) la Corte aveva fornito quattro elementi chiave per l’analisi. Questi erano (i) il livello generale di violenza; (ii) il numero di vittime tra i civili; (iii) il numero di sfollati; e (iv) la natura del conflitto e l’ imprevedibilità del suo evolversi.
Tuttavia, nell’analisi fatta dalla Corte in K.A.B, gli elementi presi in esame sono solo il numero di vittime tra i civili, ormai in calo, e il fatto che gli scontri con al-Shabaab siano sporadici e localizzati. Infatti, sulla base dei vari reports forniti da organizzazioni governative e non, i giudici europei hanno osservato che le forze governative hanno ormai il controllo sulla maggior parte della capitale e che gli attacchi di al-Shabaab non prendono direttamente di mira i civili, anche se questi rischiano comunque di rimanere coinvolti. Insomma, nella prospettiva della Corte, la situazione a Mogadiscio, anche se instabile e fragile, non è di per sé idonea a determinare per il singolo un rischio reale ed individuale.
La valutazione della Corte sembra tuttavia affrettata e dettata da un’analisi viziata. Infatti, anche se il livello di violenza a Mogadiscio non raggiunge la soglia minima per poter essere classificato come conflitto armato ai sensi del diritto internazionale umanitario, l’instabilità della situazione, i persistenti attacchi di al-Shabaab, insieme ai continui abusi sulla popolazione civile e alle condizioni inumane e degradanti in cui versano gli sfollati nei campi profughi avrebbero dovuto suggerire una maggiore cautela nel dichiarare che non vi sia alcun rischio di violazione dell’articolo 3 nel rinviare il ricorrente a Mogadiscio, anche in mancanza di elemento personale del rischio. Pur in assenza di un conflitto su larga scala, a Mogadiscio si aggirano bande armate senza scrupoli, mentre le forze governative non solo non proteggono i cittadini, ma commettono esse stesse abusi. L’unica possibilità di ottenere protezione è quella di appartenere ai clan di maggioranza.
L’impressione che la Corte lascia è che, nel caso di specie, essa abbia cercato di applicare l’articolo 15(c) della Direttiva Qualifiche UE piuttosto che l’articolo 3 della CEDU, valutando, in sostanza, solo se sussistesse una ‘minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale’.
Paradossalmente, in Sufi ed Elmi (§226) la Corte aveva fatto notare come la protezione offerta dall’articolo 3 CEDU fosse paragonabile a quella garantita dall’articolo 15(c) della Direttiva Qualifiche, in risposta alla Corte di Giustizia dell’UE che in Elgafaji (§ 35-39) aveva dichiarato che l’articolo 15(c) avesse un contenuto diverso da quello dell’articolo 3 CEDU e dovesse pertanto essere interpretata autonomamente. In K.A.B, la Corte sembra non solo equiparare ma uguagliare le due disposizioni, trascurando di prendere in considerazione altri rischi o potenziali situazioni inumane e degradanti che il richiedente potrebbe affrontare al suo ritorno.
Che i giudici di Strasburgo abbiano avuto una crisi di identità?
Occorre da ultimo interrogarsi sulle conseguenze che la pronuncia in commento potrebbe avere sugli obblighi discendenti dall’art. 3 CEDU e che incombono sugli Stati che si trovino a valutare il possibile rimpatrio di richiedenti asilo somali, stante il carattere assoluto della protezione accordata dalla Convenzione al diritto di non essere sottoposti a tortura oppure a trattamenti inumani o degradanti. In base alla precedente e cospicua giurisprudenza, un attento esame della condizione personale dovrebbe essere fatto al momento di valutare l’esistenza di una ‘protezione alternativa nel paese di origine’ in ogni parte della Somalia. Sesso, età, clan di appartenenza, presenza dei familiari, regione di origine, la capacità di poter soddisfare nel luogo di rinvio ‘i bisogni più elementari come il cibo, l’igiene e la possibilità di avere un tetto sopra la testa; la vulnerabilità ai maltrattamenti e le prospettive esistenti di migliorare la situazione entro un termine ragionevole’, oltre all’idoneità del luogo scelto, sono tutti criteri che dovrebbero essere cumulativamente presi in considerazione nel valutare le richieste di protezione internazionale in base agli obblighi discendenti dall’articolo 3 CEDU.
Può una sola sentenza mettere in discussione una giurisprudenza così avanzata?
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