Riflessioni a margine della sentenza Vinter c. Regno Unito (parte II): La funzione della pena e il valore della dignità umana: l’ergastolo tra retribuzione e rieducazione
Il valore della dignità umana e il ruolo delle giurisprudenze costituzionali nazionali
La sentenza Vinter non costituisce un vero e proprio revirement rispetto alla giurisprudenza precedente, quanto piuttosto una sua evoluzione. I pilastri argomentativi presenti nella precedente sentenza di Grande Camera nel caso Kafkaris c. Cipro [GC], 12 febbraio 2008, e nella giurisprudenza successiva (v. ad esempio, Babar Ahmad e altri c. Regno Unito, 10 aprile 2012) non sono stati modificati. La Corte aveva stabilito che la pena dell’ergastolo non costituisce, di per sé, un trattamento inumano o degradante. Tuttavia, aveva fissato alcuni paletti. i) la sanzione non deve avere un carattere manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità dei fatti compiuti; ii) la protrazione dello stato di detenzione deve essere giustificata in relazione ai fini legittimi della pena stessa; iii) la pena deve essere de facto e de jure riducibile. La cosiddetta “speranza di poter riottenere la libertà” era però messa in profonda discussione sotto un duplice profilo. Da una parte, era necessario provare in concreto che il protrarsi della detenzione non fosse più giustificato, dovendo quindi l’ergastolano scontare una porzione significativa di pena prima di potersi considerare vittima ai sensi dell’articolo 34, anche in assenza di un effettivo meccanismo di riesame; dall’altra parte, la Corte non aveva mai concretamente individuato gli scopi legittimi della pena né, a fortiori, il peso da attribuire a ciascuno di essi Con la conseguenza che la protrazione dell’ergastolo, inflitto per un reato di estrema gravità, poteva giustificarsi sul solo presupposto del suo carattere retributivo. La Corte, prima della sentenza Vinter, pur riconoscendo un ruolo importante alla funzione rieducativa della pena (v. Maiorano e altri c. Italia, 15 dicembre 2009), non le aveva mai conferito un ruolo che fungesse da limite alle altri funzioni, in particolare a quella retributiva.
L’aspetto principale della sentenza Vinter consiste nel riconoscimento del valore centrale della dignità umana nel quadro dello scopo della pena. La valorizzazione di tale principio ha comportato una doppia conseguenza. Da una parte ha permesso di riconoscere il diritto a sperare in una futura liberazione fin dal momento dell’inflizione della sanzione penale (considerate le modalità con le quali è possibile ottenerne il riesame, par. 122; “in cases where the sentence, on imposition, is irreducible under domestic law, it would be capricious to expect the prisoner to work towards his own rehabilitation without knowing whether, at an unspecified, future date, a mechanism might be introduced which would allow him, on the basis of that rehabilitation, to be considered for release”); dall’altra, impone di prendere in considerazione la funzione rieducativa della pena nel determinare se sia legittimo protrarre lo stato di detenzione. In altre parole, trascorso un certo lasso di tempo, il carattere retributivo della pena o le esigenze della prevenzione generale non sono più sufficienti, di per sé, per giustificare il permanere della detenzione. Ovviamente, sottolinea la Corte, l’assenza di un percorso di risocializzazione da parte del detenuto associato a un elevato tasso di pericolosità possono giustificare, così come è avvenuto nel caso di specie, l’inflizione della pena detentiva per tutta la vita.
È interessante, però, notare che la Corte, nel fondare sul principio della dignità umana il riconoscimento della funzione rieducativa della pena e il diritto alla speranza di ottenere la liberazione, non elabora un proprio ragionamento, ma fa proprio quello che emerge dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca e, in parte, di quella italiana (par. 113). Tale conclusione è inoltre, secondo la Corte, sostenuta dall’esistenza di un ampio consenso in ambito nazionale e internazionale (par. 114-118). La Corte ha quindi tratto una delle ragioni centrali poste a fondamento della propria motivazione da risorse argomentative proprie di alcuni corti costituzionali nazionali. Questa circostanza è un forte segnale del fatto che la Corte europea non agisce “nel vuoto” e non impone decisioni completamente slegate dal tessuto giuridico-culturale dei Paesi membri del Consiglio d’Europa. In questo quadro, è da notare come l’Italia costituisca, in queste specifiche circostanze, un punto di riferimento per i giudici di Strasburgo. Inoltre, l’attenzione posta dalla Corte all’esistenza di un consenso a livello internazionale dimostra che la Corte, nell’ambito dell’attività di interpretazione della Convenzione, prende anche in considerazione le scelte adottate dai diversi parlamenti e/o governi nazionali e quindi, indirettamente, fa “pesare”, le scelte adottate democraticamente dagli Stati
La giurisprudenza relativa all’estradizione verso Paesi non membri del Consiglio d’Europa
Rimane aperta la questione, messa in luce anche dal Governo inglese, sulle ricadute che tale sentenza potrà avere in materia di estradizione. Infatti, come si è visto, prima della sentenza di Grande Camera, ai fin di dimostrare che la pena dell’ergastolo costituiva un trattamento inumano o degradante il ricorrente doveva provare da una parte la sua «irriducibilità» de facto o de iure e dall’altra che il perdurare dello stato di detenzione non si potesse più giustificare rispetto ai legittimi scopi della pena. Tuttavia, come già messo bene in evidenza da autorevole dottrina (v. F. Viganò, in Diritto Penale Contemporaneo), essendo il giudizio della Corte necessariamente di natura prognostica (salvo ipotizzare che lo Stato abbia violato la misura provvisoria ex art. 39 del Regolamento e quindi l’art. 34 CEDU, v. Rrapo c. Albania, 25 settembre 2012), al momento della decisione dei giudici europei il periodo di detenzione nello stato di destinazione non può essere ancora cominciato: non si vede quindi come l’estradando possa «dimostrare che la protrazione dell’ergastolo non risulti più funzionale ad alcuno dei legittimi scopi della pena». Tutti i tentativi portati di fronte alla Corte erano dunque destinati a cadere nel vuoto (v. Babar Ahmad e altri, cit. ; Harkins e Edwards c. Regno Unito, 17 gennaio 2012; Gökalp e Cardona Giraldo c. Polonia (dec.), 11 settembre 2012, in cui la Corte esprime con chiarezza questo punto “La Cour note que les requérants, non encore jugés, n’ont pas commencé à purger leurs peines. Ainsi, ils n’ont pas démontré, en l’état actuel des choses, que leur incarcération consécutive à leur éventuelle condamnation aux États-Unis n’aurait aucune finalité pénologique”).
Tuttavia, con la sentenza Vinter si è affermato che il diritto alla “speranza di riottenere la libertà” sorge a partire dal momento in cui la pena dell’ergastolo è inflitta. Ciò significa che la Corte dovrebbe spingersi a verificare se, al momento dell’estradizione, sia prevista la possibilità di ottenere, in futuro, la liberazione alla luce del principio rieducativo della pena, indipendentemente da ogni prognosi sulla futura giustificazione del protrarsi dell’ergastolo. Sarà interessante vedere cosa deciderà ora la Corte nel caso Trabelsi c. Belgio (n. 140/10), del tutto simile agli altri casi sopra citati, comunicato al Governo il 24 dicembre 2012 e tuttora pendente davanti alla quinta sezione
La pena dell’ergastolo in Italia
A differenza di quanto sostenuto in alcuni commenti a caldo, si può ritenere che la sentenza Vinter non potrà che esercitare un impatto limitato sull’attuale disciplina dell’ergastolo in Italia. Infatti, questa non preclude, anche grazie ai molteplici interventi della Corte costituzionale (tra le altre, nn. 204/1974, 274/1983 e 161/1997) l’applicazione tra gli altri benefici, della liberazione condizionale e della liberazione anticipata. Sarebbe dunque rispettata la condizione imposta dalla Corte, secondo la quale l’individuo ha diritto a un ricorso, di natura giurisdizionale o amministrativa, per verificare se, espiata una parte della pena, persistano le ragioni che giustificano la permanenza dello stato di detenzione. Un ragionamento parzialmente diverso può essere svolto con riferimento all’ergastolo ostativo (previsto dall’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario) che impedisce di accedere alla maggior parte dei benefici, tra i quali la liberazione condizionale, i detenuti che, condannati per reati di natura associativa, si rifiutano di collaborare con la giustizia. In assenza di un’esplicita presa di posizione della Corte europea sul punto, la questione rimane sicuramente aperta. Tuttavia, non si può ritenere che la sentenza Vinter, di per sé, contenga elementi tali da rafforzare la posizione di chi sostiene l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’articolo 3 CEDU. Anche volendo analizzare tale questione dal punto di vista del principio della dignità umana, è del tutto possibile argomentare, così come ha fatto la Corte costituzionale (v. sent. n. 135/2003), nel senso di una conformità della condizione della collaborazione, sempre che sia “oggettivamente e giuridicamente possibile”, con il principio della funzione rieducativa della pena. L’aspetto maggiormente critico è la presenza di una presunzione dell’assenza di ravvedimento del detenuto per il solo fatto del rifiuto a collaborare: ciò, infatti, preclude al giudice qualunque valutazione, in concreto, del reale percorso di rieducazione svolto dal detenuto. A questo proposito bisogna però sottolineare che la Corte, nella stessa sentenza Vinter, ha precisato che gli Stati godono di un certo margine di apprezzamento nel determinare la forma del ricorso e, quindi, con molta probabilità, anche le condizioni che lo Stato pone per accedere a benefici e riduzioni di pena, fatto salvo la loro manifesta arbitrarietà che porrebbe nel nulla il diritto sostanziale di richiedere la liberazione.
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