Dopo la pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti in Kiobel, quale foro per le controversie relative alle violazioni dei diritti umani compiute da imprese multinazionali?
Il 17 aprile 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha adottato la propria Opinion nel caso Kiobel v. Royal Dutch Petroleum Co. La decisione sviluppa un’interpretazione restrittiva delle condizioni in presenza delle quali l’Alien Tort Statute (ATS) conferisce la competenza civile alle corti federali con riferimento a violazioni del diritto internazionale poste in essere ai danni di vittime straniere. L’ATS, adottato nel 1789, stabilisce che “The district courts shall have original jurisdiction of any civil action by an alien for a tort only, committed in violation of the law of nations or a treaty of the United States”. Con il proprio orientamento la pronuncia segna una grave battuta d’arresto nel filone giurisprudenziale relativo al contenzioso civile in materia di violazioni dei diritti umani presuntivamente compiute da imprese multinazionali nei Paesi stranieri in cui operano a mezzo delle proprie società affiliate. La decisione, lapidaria da un lato, è tuttavia non scevra di aspetti problematici dall’altro.
Con la pronuncia la Corte esclude che le corti federali abbiano competenza a decidere le fattispecie in cui “all the relevant conduct [takes] place outside the United States”, pur ricorrendo violazioni di norme del diritto internazionale aventi “definite content and acceptance among civilized nations”, ossia conformi allo standard elaborato nell’Opinion adottata in Sosa v. Alvarez-Machain, unico caso in cui la Corte suprema si era precedentemente pronunciata con riguardo all’ATS. La circostanza ricorre nel caso Kiobel, in quanto relativo alla presunta complicità della Royal Dutch e della Shell nel compimento di crimini contro l’umanità, tortura e detenzione arbitraria in Nigeria, ai danni di cittadini nigeriani, residenti nella zona del delta del Niger al tempo dei fatti e negli Stati Uniti al momento della presentazione del ricorso in primo grado, in quanto titolari del diritto d’asilo.
La conclusione della Corte determina pertanto il rigetto della possibilità per le corti federali di decidere i cosiddetti “foreign-cubed cases”, ossia le controversie in cui tanto l’attore (come previsto dal disposto dall’ATS) quanto il convenuto sono stranieri e la condotta è posta in essere al di fuori del territorio statunitense.
Occorre a questo proposito notare che con tale orientamento la Corte incide sulla natura dell’ATS, che, a fronte di una simile restrizione applicativa, difficilmente, dopo la pronuncia, potrà essere ancora considerato strumento di attribuzione ai giudici statunitensi della giurisdizione universale in ambito civile sulle violazioni sistematiche e più gravi dei diritti umani e del diritto internazionale. Questo nonostante le corti statunitensi siano tenute ad esercitare la propria giurisdizione solamente dopo avere positivamente riscontrato la sussistenza della competenza ratione personae nei confronti del convenuto. Quest’ultima è vagliata sulla base dei criteri comunemente applicati negli ordinamenti anglosassoni, ossia si considera soddisfatta al ricorrere di “minimum contacts” tra il convenuto e la sua attività, da un lato, e il territorio statunitense, dall’altro. Più specificamente l’esame della competenza personale si conforma alla dottrina della “transitory presence”, ossia si ammette che sussista un legame sufficiente anche in presenza di collegamenti transitori tra convenuto e territorio. Necessitando della dimostrazione, almeno, della presenza del convenuto sul territorio statunitense, la giurisdizione universale attribuita sulla base dell’ATS non può pertanto essere esercitata in absentia, condizione quest’ultima particolarmente problematica dal punto di vista del diritto internazionale, come evidenziato nel Caso relativo al mandato d’arresto dell’11 Aprile 2000 (Repubblica Democratica del Congo c. Belgio), risolto dalla Corte internazionale di giustizia nel 2002.
Con riguardo specifico alla Royal Dutch e alla Shell, le cui società madri sono costituite in Olanda e nel Regno Unito, le corti federali si erano già ritenute competenti ratione personae in un precedente caso (Wiwa v. Royal Dutch), poiché esse erano presenti sul territorio mediante un ufficio (l’Investment Relations Office) localizzato a New York. In Kiobel era invece stata esclusa la competenza personale nei confronti della società affiliata nigeriana, ossia la società materialmente autrice degli abusi, poiché non era ravvisabile un suo collegamento sufficiente con gli Stati Uniti.
Occorre aggiungere che anche la precisazione della Corte suprema in Kiobel, per cui “even where the claims touch and concern the territory of the United States, they must do so with sufficient force to displace the presumption against extraterritorial application”, suscita una serie di problemi. Questo perché la formulazione vaga, non meglio precisata nemmeno attraverso la specificazione secondo cui “Corporations are often present in many countries, and it would reach too far to say that mere corporate presence suffices”, rende difficoltosa l’identificazione certa delle condizioni in presenza delle quali è ragionevole ritenere che la fattispecie risulti connessa al territorio statunitense con forza sufficiente da superare la presunzione contraria all’extraterritorialità.
È ad esempio legittimo chiedersi se la restrizione dell’applicazione dell’ATS stabilita dalla Corte debba estendersi anche ai cosiddetti “foreign-squared cases”, ossia alle controversie che concernono, sì, convenuti stranieri ma con riferimento a condotte parzialmente realizzate su territorio statunitense o, alternativamente, convenuti statunitensi e condotte poste in essere all’estero.
La soluzione, affidata alla futura giurisprudenza, dovrà tenere conto anche delle conclusioni che la Corte suprema raggiungerà prossimamente nel caso Daimler Chrysler AG v. Bauman. Accettando di pronunciarsi sulla conformità al due process dell’asserita competenza personale nei confronti di una società di costituzione tedesca, la Daimler Chrysler, in una controversia che concerne la presunta violazione dei diritti umani posta in essere in Argentina ai danni di cittadini argentini dalla società affiliata locale, la Corte dovrà infatti confrontarsi nuovamente, e chiarire, la portata delle nozioni di “personal jurisdiction” e “mere corporate presence”.
In linea generale, occorre comunque segnalare che, qualora dovesse prevalere l’orientamento più severo, per il quale l’ATS potrebbe fondare la giurisdizione delle corti federali solamente con riferimento a fattispecie che si consumano sul territorio nazionale, ciò determinerebbe un approccio non solo estremamente restrittivo a livello statunitense, ma addirittura più rigoroso della situazione normativa vigente a livello europeo.
Per quanto concerne il primo aspetto preme infatti ricordare che i più celebri casi sino ad oggi risolti sulla base dell’ATS (per citarne alcuni, Filartiga v. Pena Irala, In re Estate of Ferdinand Marcos e persino Sosa v. Alvarez-Machain) sono accomunati dal fatto di concernere violazioni gravi dei diritti umani poste in essere all’estero (per quanto riguarda Filartiga, in Paraguay; per Marcos, nelle Filippine; per Sosa, in Messico), ai danni di individui stranieri, ad opera di convenuti parimenti stranieri, momentaneamente presenti sul territorio statunitense al tempo del procedimento.
Quanto invece al confronto con la legislazione europea, la competenza giurisdizionale è ripartita tra le corti nazionali sulla base dei criteri stabiliti dal Regolamento europeo n. 44/2001, oggi refuso nel Regolamento n. 1215/2012. Quest’ultimo verrà applicato alle azioni proposte a partire dal 10 gennaio 2015. Per quanto concerne la disciplina dei titoli di giurisdizione, i testi dei due regolamenti sono sostanzialmente analoghi. Ciò poiché la Proposta avanzata dalla Commissione nel 2010 nell’ambito del processo di rifusione del Regolamento n. 44/2001, diretta a estendere la competenza dei giudici europei anche a controversie che coinvolgessero convenuti domiciliati in Stati extra-europei e a introdurre un forum necessitatis che garantisse l’accesso residuale alla giustizia dinanzi ai giudici europei nei casi in cui l’attore risultasse altrimenti privato di tale diritto, è stata rigettata dal Consiglio e dal Parlamento europeo.
Pertanto, in conformità con i due regolamenti, le imprese multinazionali che violano i diritti umani al di fuori del territorio europeo a mezzo delle proprie società affiliate possono essere convenute dinanzi ai giudici europei solamente nel caso in cui la società madre sia costituita in Europa, oppure sulla base dei cosiddetti “criteri esorbitanti” stabiliti a livello nazionale, applicabili, su disposizione di entrambi i Regolamenti, con riferimento alle controversie che concernono convenuti domiciliati in Stati terzi. Tra questi, ad esempio, il criterio della presenza sul territorio nazionale del convenuto, dei suoi beni o delle sue attività, del luogo di commissione dell’illecito, oltre che il forum necessitatis (già previsto a livello nazionale dall’ordinamento di 10 Stati membri dell’Unione europea) o la possibilità di presentare azioni civili nell’ambito di procedimenti penali fondati sull’esercizio della giurisdizione universale (come previsto in 15 Paesi membri).
Alla luce delle considerazioni svolte, è pertanto legittimo chiedersi quale sarà il foro più adeguato, o anche solamente competente, a decidere le future controversie in materia di responsabilità civile per le violazioni dei diritti umani compiute da imprese multinazionali in Paesi diversi da quelli di costituzione della società madre. Qualora l’Unione europea dovesse acquisire, a fronte dell’interpretazione restrittiva dell’ATS, un ruolo primario – situazione non improbabile, ma non del tutto soddisfacente, viste le difficoltà sinora emerse nel contenzioso europeo – non si deve dimenticare che le istanze non si fonderebbero direttamente sulla “law of nations”, bensì sul diritto nazionale individuato sulla base delle norme di conflitto europee (e in particolare, del Regolamento “Roma II”). Tenuto conto anche della recente sentenza della Corte civile dell’Aja nel caso Oguru, Elfanga, Vereniging Milieudefensie v. Royal Dutch Shell Plc, Shell Petroleum Development Company of Nigeria Ltd., deciso nel gennaio 2013 sulla base del diritto nigeriano, ciò naturalmente non potrebbe che incidere sugli esiti dei singoli procedimenti.
2 Comments
Una considerazione sulla situazione normativa europea: anche se mi rendo conto che si tratta comunque di un meccanismo diverso dalle azioni fondate direttamente sulla “law of nations”, occorrerebbe capire in quale misura l’applicazione del regolamento “Roma II” consente di fare ricorso, attraverso i tradizionali meccanismi delle norme di applicazione necessaria del foro e dell’ordine pubblico, a norme e principi più protettivi dei diritti fondamentali rispetto al diritto materiale applicabile. Non mi pare che i giudici olandesi, al di là dell’affermazione di principio, abbiano approfondito questo aspetto, che potrebbe invece avere una certa rilevanza rispetto all’efficienza del sistema europeo.
Un paio di osservazioni ‘tecniche’: la mia impressione è che Kiobel non riguardi tanto la giurisdizione stricto sensu delle corti statunitensi, quanto, piuttosto, l’applicazione extraterritoriale della legge americana.
In altre parole Kiobel continua la linea di casi che vede nella decisione Morrison (130 S. Ct. 2869) il suo leading case più recente e nei quali la Corte applica la c.d. ‘presumption against extraterritoriality’ o ‘presumption against extraterritorial application of US law’ [v. anche EEOC v. Arabian American Oil Co. – 499 U.S. 244 (1991)]. Secondo questo canone interpretativo, le leggi emanate dal Congresso USA devono essere lette restrittivamente quanto all’estensione extraterritoriale del loro ambito di applicazione, onde, ad es., evitare conflitti con il diritto di altri paesi ed evitare di attrarre sotto l’ombrello della legge USA controversie che non sono connesse in alcun modo con gli USA.
La presunzione può essere superata se esistono dati, indizi o dichiarazioni che lasciano intendere l’intento del Congresso che detta legge fosse applicata extraterritorialmente.
L’effetto sulla giurisdizione è una conseguenza del fatto che l’ATS ha, in sé, natura giurisdizionale, in quanto attribuisce alle corti federali la competenza giurisdizionale per i ‘tort’ commessi in violazione della ‘law of Nations’.
Poiché, dice la Corte, l’ATS come legge non si applica alle condotte extraterritoriali (quanto meno nelle ‘foreign cubed action’), ne deriva che rispetto a tali condotte non opera l’attribuzione di giurisdizione alle corti federali (azzarderei un ‘subject-matter jurisdiction’, ma la giurisdizione statunitense è bestia talmente complessa che non potrei esserne sicuro). Peraltro questo non vincola in alcun modo le corti statali, che di base hanno una giurisdizione generale e residuale.
Discorso diverso (e altrettanto complesso) è quello relativo alla sussistenza della personal jurisdiction nei confronti del convenuto che, come riportato nel testo, è un requisito per l’esercizio costituzionalmente permesso (due process) della giurisdizione e che si rivolge a tutte le istanze giudiziarie statunitensi, sia federali che statali. Si tratta di un’indagine che è sempre presente nel caso di controversie internazionali (a patto che il convenuto si difenda sul punto).
A livello generale, mi pare che con Kiobel, Morrison da un lato, e decisioni quali Empagran [542 U.S. 155 (2004)] dall’altro, la Corte Suprema US stia attuando un programma preciso per limitare la portata internazionale della giurisdizione americana: in altre parole gli US stanno in qualche modo rinunciando a proporsi come ‘world court’ per rimediare ogni ‘wrong’ che accade sul pianeta. Si tratta a un tempo di un self-restraint encomiabile che però crea un vuoto di tutela notevole per le vittime di violazioni di diritti umani e per tutta un’altra serie di controversie (es. antitrust internazionale, class action internazionali, … ).