Le operazioni di ricerca e salvataggio in mare: chi è competente e chi è responsabile?
Gli sbarchi di migranti sulle coste meridionali del nostro paese sono iniziati e si ripropone con pungente attualità la questione della gestione dell’immigrazione irregolare via mare. Molto è già stato scritto sull’argomento, ma ciò non ha impedito il ripetersi di tragedie. In questa sede vorrei ritornare su alcuni fatti che poco hanno attirato l’attenzione dei media nonostante la loro drammaticità e che sollevano vari quesiti interessanti relativamente al quadro giuridico delle operazioni di ricerca e salvataggio (Search and Rescue, SAR) in mare e alla sua applicazione ad attori non statali.
L’8 maggio 2011 il quotidiano britannico The Guardian riferiva della vicenda di 72 persone, tra cui richiedenti asilo, donne e bambini, la cui imbarcazione si spiaggiò con solo 11 superstiti a bordo sulle coste libiche, dalle quali era partita 16 giorni prima (commenti reperibili qui, qui e qui). Dalla ricostruzione dei fatti riportata dal quotidiano e completata da un’indagine commissionata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (risoluzione 1872), risulta che i migranti avessero chiamato grazie ad un telefono satellitare un prete eritreo che risiedeva a Roma. Questo ultimo avrebbe allertato le autorità italiane, le quali avrebbero a loro volta diramato la richiesta di soccorso alle nave presenti nell’area. In quel periodo era in corso lungo le coste libiche l’operazione NATO Unified Protector e la zona, comprendente la zona SAR libica, era stata dichiarata sotto controllo militare della NATO. I sopravvissuti hanno dichiarato di esser stati avvistati da quello che al momento era sembrato una porta-aerei e da un peschereccio. Presumibilmente due unità coinvolte nelle attività NATO (la fregata spagnola Mendez Núñez e la nave italiana ITS Borsini) stavano altresì pattugliando la zona.
Alla luce dei fatti appena descritti due domande sorgono spontanee: chi doveva compiere le operazioni di salvataggio? Chi è responsabile per il mancato soccorso?
Riguardo al primo quesito, è degno di nota il fatto che gli strumenti internazionali che stabiliscono l’obbligo di portare soccorso (ossia la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM), la Convenzione sulla salvaguardia della vita in mare, la Convenzione sulla ricerca e il salvataggio e la Convenzione sul soccorso) vincolano esclusivamente gli Stati, della bandiera o costieri. I testi convenzionali impongono ai primi di adoperarsi affinché le navi battenti la loro bandiera portino soccorso alle persone in pericolo in mare e ai secondi di promuovere e mantenere dei servizi di soccorso adeguati ed effettivi. Gli Stati non hanno quindi l’obbligo di portare direttamente soccorso, ma sono vincolati da un obbligo di due diligence. Quest’obbligo permane anche qualora essi agiscano sotto l’egida di un ente sovranazionale, quale la NATO o l’Unione europea.
Queste ultime non sono invece vincolate dalle sopra menzionate convenzioni. Lo possono eventualmente essere se, in un caso determinato, gli Stati interessati hanno delegato espressamente al commando congiunto, per esempio in base alle regole d’ingaggio applicabili, le proprie funzioni in materia di soccorso. Non risulta, però, che una tale delega sia mai stata accordata fino ad ora. Inoltre, nemmeno l’obbligo di portare soccorso di natura consuetudinaria, oggi ampiamente riconosciuto, ha esteso la propria applicazione ratione personae ad attori non statali.
In conclusione, avevano l’obbligo di accertarsi che i servizi di soccorso si fossero attivati e possibilmente effettivamente dispiegati lo Stato che aveva ricevuto la richiesta di soccorso (ossia l’Italia) e qualsiasi altro Stato le cui navi, presenti nella zona considerata, avevano ricevuto la richiesta di soccorso e/o avevano avvistato la nave in avaria.
In risposta alla seconda domanda formulata sopra, consideriamo ora brevemente se gli Stati così individuati sono internazionalmente responsabili per il mancato soccorso e la morte di 61 persone. La condotta delle navi militari presenti nella zona considerata è attribuibile allo Stato della bandiera, in quanto agenti dello stesso Stato. Per quanto riguarda invece la condotta del peschereccio, nave privata, la sua attribuzione risulta pressoché impossibile, tranne si riuscisse a dimostrare una delega di poteri (cfr. articolo 5 del Progetto di articoli CDI) da parte dello Stato della bandiera in relazione all’esecuzione dei servizi SAR.
Inoltre, essendo l’obbligo derivante dalle fonti convenzionali sopra citate e dalla prassi un obbligo di due diligence, il mancato soccorso e la morte di 61 persone non costituiscono di per sé una violazione dell’obbligo. Bisogna, infatti, dimostrare che vi è stata negligenza da parte delle autorità competenti. Cosa non impossibile nel caso di specie in relazione, ad esempio, all’Italia, in quanto stato costiero che ha ricevuto la richiesta di soccorso, il quale, dopo aver diramato la detta richiesta, non ha controllato che qualcuno stesse effettivamente intervenendo, oppure all’Italia e Spagna, in quanto Stati di bandiera delle navi che hanno avvistato l’imbarcazione, i quali non hanno richiesto alle loro navi di intervenire conformemente all’articolo 98 CNUDM.
Il mancato soccorso e la conseguente morte di 61 persone possono essere direttamente attribuiti agli Stati coinvolti, e forse anche all’organizzazione internazionale interessata, se si considera che tali azioni costituiscono una violazione del diritto alla vita delle persone in mare, così come garantito da vari strumenti in materia di protezione dei diritti umani. Si consideri la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 2) la cui applicazione in mare è stata varie volte affermata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (si veda, ad esempio, i casi Medvedyev e Hirsi). Si potrebbe, quindi, argomentare che gli Stati interessati esercitavano un ‘controllo esclusivo a distanza’ sulle persone in mare, in quanto la loro sopravvivenza dipendeva completamente dal comportamento delle competenti autorità. Aspetti di responsabilità condivisa potrebbero altresì emergere.
Si può, quindi, concludere che esiste un diritto individuale ad essere salvati per le persone in mare, quale conseguenza dell’applicazione del diritto alla vita, o meglio del diritto alla sopravvivenza. La comprovata negligenza delle autorità competenti può quindi implicare una violazione di tale diritto e la responsabilità internazionale degli Stati interessati.
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Appare utile far presente un lavoro recente, senza dubbio interessante, di Seline Trevisanut dal titolo ‘Shared Responsibility Aspects in Search and Rescue Operations at Sea’, SHARES Research Paper 102 (2016), consultabile in: http://www.sharesproject.nl