Il caso “Marò”: alcune considerazioni sull’utilizzo di strumenti internazionali di risoluzione delle controversie
La vicenda dei marò italiani trattenuti e sottoposti a processo in India per l’uccisione di due pescatori indiani ha aperto un contenzioso sempre più grave e complesso nei rapporti bilaterali tra Italia e India. Come è stato fatto notare da più commentatori, sorprende che, a più di un anno dall’arresto dei due soldati Girone e La Torre, non siano stati attivati canali, procedimenti e strumenti internazionali di risoluzione della controversia che investano della questione soggetti “terzi” rispetto ai due Stati contendenti. Soprattutto, a fronte di un contenzioso che, invece di diminuire in intensità, si è andato aggravando in seguito ad atteggiamenti, da parte di entrambi i Governi di Roma e di Nuova Delhi, non improntati ai principi di buona fede e di non contraddizione. In questo breve commento, intendo esaminare quali siano gli strumenti internazionali a disposizione dei due Paesi per provare a contenere la portata della controversia e, infine, giungere ad una risoluzione definitiva della stessa.
Una prima valutazione va fatta in merito all’opportunità di prediligere degli strumenti diplomatici di risoluzione della controversia rispetto a strumenti arbitrali o giurisdizionali, o viceversa.Premesso che tra gli strumenti diplomatici, da una parte, e gli strumenti arbitrali o giurisdizionali, dall’altra, intercorre sovente un rapporto di complementarietà – nel senso che il negoziato diretto o i buoni uffici di un “terzo” sono spesso presupposto irrinunciabile per la conclusione di un compromesso arbitrale e che la stessa sentenza o lodo resa da un tribunale internazionale richiede sforzi negoziali nella fase dell’attuazione della stessa –, mi pare che la controversia si presti ad una soluzione attraverso l’applicazione del diritto internazionale da parte di un collegio di giudici o di arbitri, in quanto i principali oggetti del contendere tra i due Stati – il diritto a giudicare di fatti avvenuti in acque internazionali, le immunità funzionali di militari in missione, il venire meno dell’Italia all’affidavit del proprio Ambasciatore, le limitazioni alla libertà di movimento di quest’ultimo imposte dalla Corte Suprema indiana – sono tutte questioni direttamente, e non tangenzialmente, disciplinate dal diritto internazionale. Nulla esclude che una soluzione possa essere trovata attraverso i buoni uffici o la mediazione di soggetti terzi come il Segretario Generale delle Nazioni Unite, così come avvenne, perlomeno in un primo momento, nella nota vicenda Rainbow Warrior (su specifica richiesta di Francia e Nuova Zelanda); ma diventa difficile ipotizzare che l’India trovi un accordo con l’Italia nell’investire della questione il Segretario Generale, ovvero che sia quest’ultimo, proprio motu, a rischiare del proprio “capitale” politico in una difficile trattativa su una questione diplomatica bilaterale che non pare mettere a repentaglio la sicurezza e la pace internazionale.
Ma quali potrebbero essere le strade da percorrere per sottoporre il contenzioso ad un arbitro o ad un giudice internazionale? Innanzitutto, va precisato che l’India non ha manifestato l’intenzione, né ha interesse immediato, a deferire la controversia ad un tribunale internazionale attraverso un compromesso di arbitrato, o, ancora meno, attraverso un proprio ricorso unilaterale. Ha sempre ritenuto che la giurisdizione sugli eventi avvenuti al largo del Kerala spettasse in primis alle proprie autorità; ha esercitato tale giurisdizione e continua ad esercitarla attraverso il procedimento a carico dei due italiani; inoltre, dato ancora più importante da un punto di vista delle strategie indiane, a parte il breve periodo intercorso tra l’annuncio italiano di non fare rientrare i due militari e il successivo ripensamento del Governo italiano, non ha mai perso il “controllo” sui due cittadini italiani. Senza entrare nel merito dell’opportunità complessiva e della legittimità della scelta del nostro Governo di venire meno all’impegno assunto dall’Ambasciatore Mancini, il non rientro dei due militari avrebbe potuto rivelarsi uno strumento di pressione particolarmente efficace proprio al fine di persuadere l’India a deferire la controversia a un giudice internazionale.
Allo stato delle cose, l’unica strada realisticamente percorribile pare essere quella del ricorso unilaterale dell’Italia davanti ad un giudice o un arbitro internazionale. La strada si biforca in due ulteriori vie e non è da escludere che l’Italia possa percorrerle entrambe. La prima è quella del ricorso ad arbitrato UNCLOS ex Allegato VII della stessa UNCLOS. Come noto, la sezione 2, Parte XV (Artt. 286-296), disciplina le procedure opzionali od obbligatorie, di natura giurisdizionale o arbitrale di risoluzione di controversie sull’interpretazione e applicazione della Convenzione. Il primo paragrafo dell’Art. 287 prevede la possibilità per gli Stati parti di scegliere uno dei tre seguenti strumenti giurisdizionali o arbitrali: il Tribunale internazionale per il diritto del mare (ITLOS); la Corte internazionale di giustizia (CIG); un tribunale arbitrale istituito ai sensi dell’Allegato VII. L’Italia ha effettuato una scelta a favore delle opzioni ITLOS e CIG, mentre l’India non ha optato per alcuna delle due. In assenza di corrispondenza nella scelta di una delle tre modalità (par. 5) e se la controversia non rientra nell’ambito di giurisdizione definito da una dichiarazione in vigore (par. 3), l’arbitrato ex Allegato VII può trovare applicazione. Ai sensi di tale disposizione e dell’Art. 286, che stabilisce che “[…] any dispute concerning the interpretation or application of this Convention shall, where no settlement has been reached by recourse to section 1, be submitted at the request of any party to the dispute to the court or tribunal having jurisdiction”, l’Italia potrebbe richiedere unilateralmente l’istituzione di un Tribunale arbitrale ex Allegato VII.
L’Art. 286, tuttavia, prevede anche un requisito di ammissibilità della domanda, laddove stabilisce che questa sia esperibile, quando non si sia giunti ad una soluzione della controversia attraverso le disposizioni e gli strumenti previsti alla sezione 1 del Cap. XV (“where no settlement has been reached by recourse to section 1”). La sezione 1 prevede, infatti, all’Art. 279 l’obbligo generale di soluzione delle controversie in conformità alla Carta ONU perseguendo una soluzione concordata attraverso gli strumenti di cui all’Art. 33 della Carta stessa. L’Art. 283 prevede poi l’obbligo per le parti di comunicare e scambiare le proprie posizioni in merito all’esperimento di un negoziato o all’utilizzo di altri strumenti pacifici di risoluzione delle controversie internazionali. A questo proposito, va notato come lo stesso Art. 283 sia espressamente richiamato nella richiesta, contenuta nella Nota verbale del Governo italiano del 11 marzo di quest’anno, di un incontro diplomatico per individuare i modi più opportuni per risolvere la controversia (il primo documento ufficiale della nostra diplomazia con cui si dichiara esistente una controversia internazionale). Ad oggi, l’India non ha risposto alla richiesta italiana. Ad cautelam, il Governo italiano potrebbe anche proporre di negoziare un compromis nel quale l’ambito del petitum vada a ricomprendere tutte le questioni oggetto di contenzioso, ivi incluse le immunità funzionali dei militari italiani e le immunità diplomatiche dell’Ambasciatore italiano. Fallito anche tale tentativo, verrebbe senza dubbio soddisfatto anche il requisito procedurale previsto per l’attivazione unilaterale dell’arbitrato ex Allegato VII UNCLOS.
L’attivazione di un arbitrato ex Allegato VII UNCLOS non sarebbe la panacea di tutti i mali (soprattutto di quelli italiani). L’ambito di giurisdizione ratione materiae sarebbe verosimilmente limitato dal dettato della Parte XV che prevede e disciplina gli strumenti di soluzione delle controversie relative all’interpretazione o applicazione della UNCLOS. In altre parole, vi sarebbe il rischio che il Tribunale arbitrale si limiti a giudicare del profilo della giurisdizione sui fatti dell’incidente, escludendo l’importante questione dell’immunità funzionale dei nostri militari non disciplinata da UNCLOS. Resterebbe la possibilità, peraltro incerta, di perseguire un accertamento della violazione delle immunità funzionali dei militari italiani attraverso un’interpretazione estensiva dell’Art. 293 (che però disciplina la legge applicabile, non l’ambito di giurisdizione dei tribunali previsti dall’Art. 287). Invero, simile interpretazione estensiva è stata adottata dal Tribunale arbitrale UNCLOS nel caso Guyana c. Suriname (sentenza del 17 settembre 2007, par. 402ss.), proprio sulla scorta di quella disposizione, portando il Tribunale, nel contesto di una controversia sulla delimitazione dei confini marittimi, a giudicare delle richieste dello Stato ricorrente per violazione delle norme della Carta delle Nazioni Unite sull’uso della forza.
Contestualmente alla richiesta di istituzione di un Tribunale arbitrale UNCLOS, l’Italia potrebbe richiedere delle misure provvisorie per salvaguardare i propri diritti, come, per esempio, la consegna dei due militari ad uno Stato terzo in pendenza di processo e/o la sospensione dei procedimenti penali in corsi. Questo Stato terzo potrebbe essere individuato in uno Stato neutrale, ovvero in uno Stato con cui nessuna delle parti ha in vigore un accordo di estradizione. Ai sensi dell’Art. 290, la possibilità di richiedere delle misure provvisorie dovrebbe essere concordata con l’India (ipotesi di fatto poco plausibile); ovvero la richiesta stessa dovrebbe attendere la costituzione del tribunale (ai sensi dell’Art. 3 dell’Allegato VII un periodo massimo di 120 giorni nell’ipotesi di mancata collaborazione indiana); ovvero ancora, in pendenza di costituzione del Tribunale, potrebbe essere sottoposta all’ITLOS trascorse due settimane dalla notifica dell’intenzione alla controparte (Art. 290, par. 5 e Art. 89 delle Regole ITLOS), salva la possibilità per il Tribunale arbitrale, una volta costituito, di revocare, modificare o confermare eventuali misure provvisorie che siano state concesse dall’ITLOS. Quest’ipotesi sembra essere particolarmente interessante, in quanto i tempi di risposta a una richiesta di misure provvisorie sono generalmente brevi, mediamente un mese nel caso della procedura ex Art. 290, par. 5.
La seconda strada, non necessariamente alternativa alla prima, è quella del ricorso italiano davanti alla CIG per violazione della Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche. Sia l’Italia, sia l’India, hanno ratificato il Protocollo Opzionale sulla risoluzione delle controversie che prevede all’Art. I la possibilità di ricorso, anche unilaterale, alla CIG nel caso di controversie relative all’interpretazione e applicazione della Convenzione stessa. È notizia delle ultime ore che la Corte Suprema indiana avrebbe revocato le misure restrittive imposte all’Ambasciatore italiano. Se così fosse, obiettivo di un ricorso italiano non sarebbe più quello dell’ottenimento di misure provvisorie da parte della CIG, ma, piuttosto, quello di una sentenza dichiarativa di accertamento dell’avvenuta violazione della suddetta Convenzione di Vienna, accompagnata, eventualmente, da delle garanzie di non ripetizione del comportamento illecito. È vero che la questione del trattamento dei nostri diplomatici da parte dell’India e del relativo contenzioso può essere ritenuta marginale rispetto alla controversia principale; e che il rimedio di una mera sentenza dichiarativa di accertamento di una violazione della Convenzione di Vienna sulle Relazione Diplomatiche sarebbe “insoddisfacente” rispetto alle pretese complessive dell’Italia nell’intera vicenda. Ma il ricorso unilaterale alla CIG, relativamente alle violazioni delle immunità diplomatiche, congiuntamente alla richiesta di costituzione di un Tribunale arbitrale UNCLOS, relativamente alla giurisdizione e alle immunità funzionali dei due militari, potrebbero costituire un elemento di pressione significativa esercitata sull’India per la conclusione di un compromesso arbitrale “onnicomprensivo” e che miri ad una risoluzione complessiva e definitiva della controversia tra i due Paesi. Tanto più che per il Governo indiano, l’essere convenuti in giudizio potrebbe diventare l’argomento decisivo per compiere scelte più “internazionaliste” e per sottrarsi ai forti condizionamenti interni provenienti da una magistratura particolarmente assertiva e da un’opinione pubblica decisa a rivendicare giustizia per le due vittime.
Una considerazione conclusiva. La scelta dell’Italia di difendere i propri militari nel processo indiano, piuttosto che dal processo indiano, e la formalizzazione piuttosto tardiva, a più di anno dall’incidente della Enrica Lexie, dell’apertura di una controversia internazionale non hanno giovato al perseguimento di una risoluzione della vicenda attraverso strumenti diplomatici e/o giurisdizionali internazionali. Tanto più che l’Italia avrebbe agito (e agirebbe) principalmente, se non esclusivamente, a tutela di diritti propri e, quindi, il previo esaurimento dei ricorsi interni non costituiva requisito per l’azione in giudizio; in altre parole, non si poneva (e non si pone) un problema giuridico di coordinamento tra i procedimenti penali in corso e l’attivazione di un arbitrato o processo internazionale. Il problema, ben esemplificato dalla “saga” relativa all’attuazione ai giudicati della CIG nei casi La Grand e Avena, è di tempistica e riguarda la capacità concreta delle sentenze internazionali di incidere in un procedimento penale interno in corso: più tarda il giudicato internazionale e più si avvicina una eventuale sentenza di condanna dei due militari, maggiori saranno gli ostacoli per l’attuazione della sentenza internazionale o del lodo arbitrale e, in definitiva, per il perseguimento dell’obiettivo di risoluzione della controversia tra i due Stati.
2 Comments
Condivido senz’altro l’impostazione dell’intervento. La mancata attivazione, da parte dell’Italia, di alcun tentativo di portare a livello internazionale la questione e la controversia che ormai è insorta determina non solo una singolare deferenza del nostro Paese rispetto all’India, ma è anche foriera di conseguenze per i due militari che rischiano giorno per giorno di aggravarsi.
Fra l’altro, è anche a mio avviso dubbio che l’India avesse effettivamente giurisdizione sulla vicenda, poiché al di là di quanto è previsto al riguardo dal diritto internazionale, sul piano interno non pare che l’India potesse esercitare giurisdizione penale se non con la presenza dei militari in territorio indiano, presenza che inizialmente è stata ottenuta a quanto pare con l’inganno, e successivamente con la decisione dell’Italia di far tornare in India i due militari.
Sotto questo profilo, la sentenza della corte Suprema indiana del gennaio 2013 non convince affatto in punto giurisdizione federale, e dunque si poteva – si potrebbe ancora – sfruttare anche questa sentenza come spunto per instaurare una controversia a livello internazionale.
Insomma, materia per un contenzioso internazionale, da iniziarsi anche solo per esercitare pressioni diplomatiche, ve ne sarebbe.
Molto critico, quindi, sarebbe il giudizio sulla gestione della vicenda da parte italiana, ove dovesse confermarsi quanto recentemente fatto intendere dalla nostra diplomazia, e cioè che accettiamo la giurisdizione indiana con la “garanzia” (?!?) che non verrà applicata la pena di morte ai due militari in caso di condanna. Sotto questo profilo, la sola ipotesi che questo rischio effettivamente pende sui due militari avrebbe di per sé costituito ampia giustificazione, anche sul piano costituzionale, per non rimandarli in India.
Risposte e soprattutto iniziative urgenti e più persuasive dal nostro Governo sono quindi quanto mai necessarie.
Se perfino gli arbitri di calcio ricevono bottiglie in testa, fa ridere pensare che l’India si sottometta a un arbitrato. L’Onu non ha concluso nulla per Iraq e Afghanistan, e così l’Ue di fornte alla guerra balcanica.
Se tutti i militari hanno l’immunità funzionale pure quando noleggiati a un provato, allora ne assumo uno come maggiordomo perché spari a chi fa baccano in strada. Vedete http://www.diritto.net e http://www.questionegiustizia.it.
Chiunque userebbe l’inganno per catturare presunti omicidi, a meno che non si preferisca usare la forza. RIngraziate piuttosto capitano e armatore di esserci cascati come polli.
L’India può subire pressioni ma pure farne, credo non lievi. Blocca un ambasciatore, mentre l’Italia lascia liberi i portaborse dello Ior come diplomatici vaticani. L’immunità viene data con l’accredito, e può essere revocata
E per il caso Cucchi un processo indiano non sarebbe certo peggiore di uno italiano