I marò alla fine tornano in India
Il 22 marzo 2013, finalmente, alla vigilia della scadenza del permesso loro concesso per esplicare il loro diritto di voto nelle elezioni politiche italiane, i marò sono tornati in India, con la garanzia di risiedere presso l’ambasciata italiana a Nuova Delhi e di non essere sottoposti alla pena di morte in caso di condanna, per l’omicidio dei due pescatori indiani rimasti uccisi nell’incidente fra il peschereccio indiano Saint Anthony e il cargo battente bandiera italiana Enrica Lexie il 15 febbraio 2012.
La notizia segue quella dell’11 marzo scorso, secondo cui, in una nota verbale consegnata alle autorità indiane dall’ambasciatore italiano Daniele Mancini, il nostro Ministro degli esteri, d’intesa con i Ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, aveva informato il Governo indiano che, stante la formale instaurazione di una controversia internazionale tra i due Stati, i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non avrebbero fatto rientro in India (v. il comunicato del Ministero degli Affari Esteri, Maro’: Terzi, restano in Italia; Controversia Internazionale).
La nuova mossa appare come il tentativo – non inutile, ma certo non completamente riparatore – di rimediare ad una decisione difficile da giustificare tanto sul piano del diritto che su quello politico.
Non era convincente la motivazione che si fosse instaurata con l’India una “controversia internazionale” a seguito della sentenza della Corte suprema indiana del 18 gennaio, secondo cui una corte speciale da instaurarsi a Nuova Delhi dovrà pronunciarsi, prima che sulla colpevolezza dei marò, ancora una volta sulla questione della giurisdizione. La controversia sulla giurisdizione esisteva già da un anno. La nota faceva riferimento anche alla mancata risposta dell’India alla richiesta italiana di attivare le forme di cooperazione previste dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, per la ricerca di una soluzione diplomatica e, se necessario, arbitrale o giudiziale del caso. Ma il nostro governo si era impegnato con l’India a far rientrare i soldati. Comunque la si pensi sulla colpevolezza o meno dei marò, e a prescindere dalla fondatezza delle ragioni italiane sulla insussistenza del diritto delle autorità indiane a giudicare i medesimi, la contromisura come reazione a un atto illecito altrui è giustificabile solo se rispetta talune condizioni, fra cui il previo infruttuoso esperimento delle vie diplomatiche. La tesi che la nostra fosse una contromisura legittima motivata dal fatto che l’India non si è ancora resa disponibile a un negoziato non è persuasiva, perché questo, da parte indiana, non c’è ancora stato. Anzi, avevano offerto per la seconda volta ai soldati italiani di rientrare nel loro Paese (la prima volta nel dicembre scorso per consentire loro trascorrere il periodo natalizio con le famiglie).
Anche dal punto di vista politico, la decisione di trattenere i marò in Italia non era facilmente comprensibile. In primis, il nostro comportamento ha esposto l’Italia a contromisure o comunque comportamenti inamichevoli dell’India e quindi messo a rischio le migliaia di italiani che lavorano, vivono e viaggiano in India. Il governo indiano avrebbe potuto revocare licenze, ostacolare accordi commerciali, sospendere visti, rallentare processi. Azioni gravi e importanti di cui – è evidente – non si era tenuto adeguatamente conto. Vi è poi, e non è poco, una perdita di credibilità internazionale, con possibili ripercussioni, oltre che nelle relazioni con l’India, nei rapporti – non soltanto in materia giudiziaria – con altri Paesi.
Non vale la pena, a questo punto, indagare su altri possibili errori commessi dall’Italia nella gestione del caso Marò: dalla decisione di far entrare la Enrica Lexie nel porto dopo l’incidente del peschereccio, alla strategia di contestare la giurisdizione indiana contestualmente in relazione al luogo di commissione del fatto (alto mare, piuttosto che zona contigua o mare territoriale) e alla natura ufficiale dell’azione dei due fucilieri per la quale opera il principio dell’immunità funzionale, anziché puntare direttamente su quest’ultima.
È opportuno invece rammentare che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone debbono comunque essere processati in Italia. Se non accadesse sarebbe grave: il governo italiano ha sempre insistito sul fatto che i marò non possono essere sottoposti alla giurisdizione indiana perché il processo sulla morte dei due pescatori indiani si sarebbe svolto nel nostro Paese.
L’arbitrato internazionale auspicato dall’Italia, come consentito dalla Convenzione sul diritto del mare o su altra base consensuale, dovrà giudicare se la pretesa indiana, all’origine della controversia, di giudicare i marò in India sia o meno lecita dal punto di vista internazionale. Lo stesso potrebbe essere investito anche della questione della liceità dell’annuncio del mancato ritorno dei due Marò in India al termine del permesso loro concesso; così come della questione della liceità delle reazioni indiane, fra cui l’intimazione all’ambasciatore italiano a Nuova Delhi di non lasciare il Paese. Un comportamento quest’ultimo che, in assenza di una formale dichiarazione di persona non grata, non pare in nessun caso giustificato. Le norme sulle immunità diplomatiche, tra cui quella sulla inviolabilità personale dell’agente diplomatico, sono, come si sa, uno dei fondamenti della pacifica convivenza tra Stati, il cui rispetto si impone anche in caso di conflitto armato e la cui violazione non è consentita neppure a titolo di contromisura.
Non è infine da escludere che in attesa della definizione della controversia e quale che sia l’ambito della sua giurisdizione, il tribunale arbitrale chieda sia all’India che all’Italia, a titolo di misura provvisoria, di sospendere l’esercizio delle azioni penali nei confronti dei due fucilieri. È questo il risultato cui dovrebbe mirare l’Italia. Che è assai di più delle garanzie sulla sorte dei nostri fucilieri fin qui ottenute con un comportamento la cui liceità è assai dubbia, per le ragioni sopra esposte.
2 Comments
Dare la parola, emettere un comunicato che la smentisce, e alla fine rispettare i patti originari è schizofrenia. Ridicola schizofrenia, concordo (tra l’altro il Ministro Terzi è un tecnico, mica un politico: una garanzia).
Ormai la frittata è fatta, il mio commento ha poco senso, però sul tenere i militari a casa non avrei visto un dramma che attenta alla pacifica convivenza. Ad esempio, tenerli sino a sentenza definitiva sulla giurisdizione.
I fatti sono del febbraio 2012, e la magistratura indiana parla ancora di decisioni sulla giurisdizione (più di 13 mesi dopo). Il fatto che non debbano essere giudicati da una Corte indiana è oscuro solo per la magistratura indiana; tempi per i negoziati ci sono stati, come quelli per accertare una mancanza di buona fede indiana (dal chiedere l’attracco alla gestione della vicenda della magistratura, rimpallando sentenze su sentenze).
13 mesi, tanti quanti…
Febbraio 1998: 20 vittime al Cermis. Il diritto è chiaro: Accordo NATO, i colpevoli devono essere spediti negli USA. Un rapporto interno riconosce che i piloti andavano troppo veloci e troppo bassi, non autorizzati perciò a quella condotta, ma a Marzo 1999 (13 mesi dopo) ci son già stati due gradi di giudizio, e i militari USA sono scagionati.
Al di là del triste epilogo di giurie nazionaliste, il diritto internazionale era chiaro ed è stato applicato dall’Italia.
La malafede oggi è di chi tergiversa, non dell’Italia.
PS A proposito del triste epilogo del Cermis, quello sì uno schiaffo al diritto e alla pacifica convivenza, non mi sembra che ci fu alcuna ripercussione sui rapporti commerciali tra USA e Italia. Anzi, quella era l’epoca del D’Alema atlantico, e i turisti USA si godevano Roma e Positano come sempre. Non ingigantirei le prospettive… Non vorrei che sedicenti considerazioni politiche mascherino paure.
Buona sera, mi chiedo e vi chiedo perché non poniamo la stessa attenzione sui Civili detenuti e condannati all’ergastolo in India? La situazione pone in cattiva luce entrambi gli Stati e sicuramente gli interessi Geopolitici hanno pesato molto, gli strumenti per la risoluzione pacifica della controversia non mancano solo che forse sono stati volutamente ignorati, inoltre l’Italia avrebbe dovuto far leva sul precedente caso di soldati Onu processati nel proprio Stato d’appartenenza. In questo caso hanno prevalso gli interessi e gli investimenti anche Italiani in India.